Un nuovo e interessante Paper sulla Festa su Academia.edu

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Ho recentemente ricevuto nella mia casella di posta un avviso da Academia.edu riguardante un nuovo studio scientifico riguardante la bella Festa del Mandorlo in Fiore; ovviamente mi sono fiondato a leggerlo per vedere se potesse interessare i lettori del sito.

Ritengo che la risposta possa essere affermativa e, così, sono qui a parlarvene 🙂 .

Iniziamo con i riferimenti biliografici: potrete trovare il paper in oggetto a questo indirizzo (previa registrazione gratuita al sito); potrete anche scaricarlo, come ho fatto io, per leggerlo con calma.

Il titolo dello studio è: Dal Folklore all’Arte. “Impressioni sulla Sagra del Mandorlo in fiore” nella pittura del Novecento ed è stato realizzato dal Prof. Giuseppe Cipolla.

Nello studio si analizza, con buon dovizia di particolari, la storia di un premio internazionale di pittura agrigentino che ci permette di apprezzare a tutt’oggi alcune opere che ritraggono la Festa del Mandorlo in Fiore.

Premetto che io sono esclusivamente un appassionato della cultura siciliana (e, quindi, non ho le competenze culturali necessarie ad una lettura approfondita delle opere) ma il vedere le riproduzioni delle opere mi ha fatto un enorme piacere, specie considerando che sono ben due anni che la Festa non si svolge in forma compiuta per ben note cause.

È vietata la riproduzione delle opere ma vi consiglio sicuramente di scaricare il paper e guardare coi vostri stessi occhi l’opera di Gianbecchina dedicata a quella che allora era la Sagra del Mandorlo in Fiore (è stata cambiata la denominazione alcuni anni fa) o quella di Fritz Itzinger: entrambe raccontano (ognuna a modo loro) uno scorcio di vita che è almeno ancora parzialmente vivo qui ad Agrigento.

Nello studio sono presenti anche raffigurazioni di altre opere che non sono da meno; ma le due sopracitate sono quelle che ho apprezzato di più.

Sono giunto al termine e posso solo raccomandarvi di scaricare il paper e di leggerlo da voi.

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Eroica Fenice: Testata Campana da Tenere d’Occhio

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Tra le realtà emergenti campane, c’è una testata che fa della sinergia tra suoi giovani (spesso giovanissimi) articolisti, la qualità e l’originalità dei contenuti, oltre che nella precisione e rapidità nello stare sul pezzo, il suo punto di forza e di unicità.

 

Stiamo parlando dell’Eroica Fenice, giornale web fondato da Marcello Affuso e Giuseppina Iervolino, entrambi docenti di materie umanistiche, la cui storia è un ottimo esempio di come da piccole ma necessarie ribellioni possano nascere nuove fantastiche realtà.

 

Era il 2012 quando entrambi lavoravano da diversi mesi per un giornale universitario di grandi prospettive e con diverse redazioni sparse per tutta Italia.

Quell’ingranaggio perfetto all’esterno nascondeva però tante dinamiche farraginose e perverse al suo interno: una gestione dispotica, arrogante e incapace di accogliere i bisogni e le esigenze degli articolisti – per lo più studenti universitari - che accecati dalla promessa di una futura retribuzione e dei patenti da pubblicisti, lavoravano a testa basta e senza mai alcuna gratificazione.

Affuso e Iervolino, che da poco avevano creato un nuovo polo nel napoletano di cui erano stati designati come i principali responsabili, stanchi e preoccupati per la sorte dei nuovi adepti presero una decisione istintiva quanto inaspettata. Ammutinamento di massa. Era finito il tempo dello sfruttamento, bisognava cambiare regime. Lasciata la testata, la redazione, rimasta quindi senza sito, decise allora di aprire un blog, in segno di rivalsa e di riscatto.

Così, dalle ceneri, emerse una Fenice eroicamente sopravvissuta e più viva che mai.

 

Da piccolo blog di nicchia a giornale riconosciuto e apprezzato.

Media partner di importanti festival – come quello della musica di Brescia - e presente con microfoni e fotocamere a rassegne, concerti, spettacoli teatrali ed eventi gastronomici, l’Eroica Fenice è riuscita dove molti falliscono: nel dare continuità ad un sogno.

Sono passati 7 anni e i due, infatti, oggi ancora ci lavorano quotidianamente.

Nessuna ansia, pochi articoli mensili richiesti ai collaboratori e tantissime occasione di accredito, oltre che di convivialità.

Eroica Fenice ha lanciato un nuovo modello di giornalismo, basato sull’umanità, sul gruppo e sul lavoro di squadra. Un esempio raro e sicuramente da imitare.

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San Calogero e Girgenti: un Incontro sulla Storia del Santo Nero

foto storica festa di san calogero ad agrigento

Il rapporto tra la devozione, la festa, la memoria intorno al santo più amato dagli agrigentini, il santo nero San Calogero, e la città sarà al centro dell’incontro sul tema “San Calogero e la sua Girgenti”, che si terrà giovedì 28 giugno alle ore 18.30 nella Biblioteca comunale “La Rocca” di Agrigento .

Interverranno il Sindaco della città, Calogero Firetto, il rettore del santuario sancalogerino don Giuseppe Veneziano, Lello Casesa studioso di cultura e tradizioni popolar, lo storico Elio Di Bella.

Verranno proiettati per l’occasione scatti fotografici e video sulla festa dedicata al Santo realizzati dai fotografi Giuseppe Cacciolla e Calogero Montana Lampo.

Sarà presente la Confraternita e associazione dei portatori.

Concluderà la serata l’esibizione dei piccolo devoti del gruppo folkloristico “Val d’Akragas”.

La pasticceria Saieva e il panificio Passarello offriranno una degustazione dei loro prodotti.

L’incontro apre il ricco cartelloni di eventi che anche quest’anno caratterizzerà il festino di luglio dedicato al Santo delle Grazie.

Il tema dell’incontro mettere a fuoco le tradizioni che hanno segnato nei secoli il rapporto tra il culto sancalogerino e la Città dei Templi.

Una festa quella dedicata al santo che infatti si intreccia con la storia e la cultura della città, trovando particolare riferimento al mondo contadino che nei secoli ha manifestato con processioni offertoriali, con voti e con il caratteristico lancio del pane verso la statua nelle due processioni domenicali il suo attaccamento ai valori umani e religiosi che il culto verso San Calogero esprime.

Una serata di storia, folklore ed anche gastronomia per toccare i tanti ambiti (culturali, religiosi, sociali) investiti dall’affetto del popolo agrigentino per questo santo, di cui pure si conosce poco per la mancanza di fonti storiche sufficienti.

L’iniziativa ha il merito di voler illustrare in particolare gli sviluppi che il festino e il culto hanno avuto nei secoli ad Agrigento e non solo.

Elio Di Bella

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San Calogero, dalla Storia al Folklore: un Itinerario di Fede e Tradizione

festa di san calogero ad agrigento

Agrigento, definita dal poeta greco Pindaro come “la più bella tra le città dei mortali”, conserva oltre ai meravigliosi resti del mondo greco anche un affascinante patrimonio religioso legato ai culti cristiani, frutto di una millenaria stratificazione multiculturale che nel tempo ha visto mescolarsi le tradizioni cristiane con gli influssi provenienti dal mondo pagano.

Dunque Agrigento è stata meravigliosa protagonista nei secoli di uno straordinario melting pot culturale che ha plasmato il volto attuale della città sotto tutti i punti di vista possibili, mantenendo però sempre radicate le tradizioni religiose.

Così accade che Agrigento sia la città del “Santo Nero”, quel carismatico e miracoloso San Calogero di Girgenti che però veniva da lontano.

 

Un Santo taumaturgo che nelle immagini sacre viene rappresentato con l’aspetto rassicurante di un vecchio eremita dalla lunga barba bianca e dalla pelle scura, dall’ampio mantello sotto il quale ogni pio devoto può simbolicamente trovare rifugio.

Quant’è bello San Calò! Così pulito e rassicurante nella sua figura minuta! Quanto è amato San Calò!

Lo sanno bene gli agrigentini che per lui farebbero ogni sacrificio, ogni fioretto pur di sentirlo vicino, pur di essere accolti sotto la sua ala protettiva, sotto il suo mantello.

 

Descrivere questa comunione viscerale tra gli agrigentini e il Santo non è impresa semplice perché si tratta di una devozione forte e struggente che è palpabile tra la gente, che è facilmente manifesta anche ai turisti che ogni anno giungono in città tra la prima e la seconda domenica di luglio per assistere ai festeggiamenti in suo onore, quando sacro e profano, religione cristiana e paganesimo si mescolano fantasticamente e danno vita a quel grido gioioso che sempre emoziona: “E chiamamu a cu nn’aiuta! Evviva San Calò!” (E chiamiamo a chi ci aiuta! Evviva San Calogero!).

Tuttavia vogliamo provare a farvi immergere in questa meravigliosa atmosfera di fede e di festa e vi proponiamo un simbolico itinerario che partendo dalla storia e dal folklore si inerpica lungo i sentieri della fede e della tradizione, ripercorrendo gli elementi più significativi e le tappe fondamentali della festa del “Santo Nero”.

 

La ricostruzione storica della figura di San Calogero

Proporre una ricostruzione storica della figura di San Calogero non è semplice poiché, come spesso accade nel caso delle vite dei santi, mito e realtà si fondono in modo indissolubile, tuttavia, in questo caso, disponiamo di alcune fonti attendibili sulle quali potere fare affidamento almeno per ciò che riguarda gli aspetti principali dell’esistenza di questa figura religiosa molto carismatica.

Il Santo nacque, almeno secondo la tradizione, in Calcedonia nel 466 d.C., tuttavia a questa data talvolta se ne oppongono altre contrastanti. Il suo nome deriva dal greco e significa “buon vecchio”, un appellativo che si dava anche agli anacoreti che vivevano appartati in luoghi solitari. I suoi genitori erano cristiani e sin da piccolo anch’egli seguì gli insegnamenti di questa religione.

Così, fin da giovane, detestò tutti i piaceri mondani tanto da ritirarsi a vivere in una foresta, dove, lontano da tutti, si dedicò ad una vita in solitudine come eremita contemplando Dio, dal quale ricevette due preziosi doni: quello dei miracoli e quello della profezia. Dopo molti anni di eremitaggio fu chiamato dal vescovo di Calcedonia e fu nominato sacerdote, fu così che cominciò la sua attività di predicazione del Cristianesimo.

Dopo molti anni di attività di evangelizzazione dovette fuggire a causa delle persecuzioni che stavano facendo strage di cristiani nell’Africa Settentrionale.

Giunto in Sicilia si stabilì a Lilibeo, dove si ritirò in una grotta per poi sfidare ogni pericolo e cominciare a predicare il Cristianesimo. Infervorò i popoli con le sue opere di pietà e con i suoi prodigi, prestò cure agli ammalati avvalendosi delle acque sulfuree dell’isola e convertì molti abitanti che in lui vedevano un padre spirituale ma anche un taumaturgo.

Ormai molto vecchio, si stabilì in una grotta sul Monte Cronio a Sciacca e vi trascorse l’ultimo periodo della sua vita, cibandosi, secondo la leggenda, del latte di una cerva, la quale gli fu poi uccisa involontariamente dal cacciatore Arcadio. Sempre secondo la tradizione, morì il 18 giugno del 561 d.C., che è il giorno in cui molti celebrano la festa in suo onore. Il suo corpo venne seppellito sul Monte Cronio da Arcadio, che nel frattempo era diventato suo discepolo, in seguito, per metterlo al sicuro dalle persecuzioni dei Saraceni giunti sull’isola, fu trasferito nel Monastero di S. Filippo di Fragalà, nella diocesi di Messina.

Il legame del Santo con Agrigento nasce dal fatto che si racconta che il monaco Calogero, durante la sua attività di evangelizzazione, mentre dilagava la peste, era solito andare in giro per chiedere il pane da donare ai poveri. Le persone, temendo il contagio, lanciavano il pane al Santo direttamente dalle finestre e lui lo raccoglieva con amorevole cura per offrirlo ai bisognosi.
Calogero fu un personaggio che si caratterizzò per l’eroismo del suo sacrificio, per la sua filantropia, per la santità di vita e di costumi e fin da subito fu forte la devozione nei suoi confronti.

 

Il folklore tra fede e tradizione

La figura di questo Santo Nero, taumaturgo ed eremita, fu subito molto amata tanto che oggi in diversi luoghi della Sicilia viene venerato e portato in processione. Tra i tanti posti, oltre ad Agrigento, che lo vedono protagonista di un forte e suggestivo culto abbiamo: Naro, Porto Empedocle, Realmonte, Sciacca, Canicattì, Aragona, Santo Stefano Quisquina, Campofranco, San Salvatore di Fitalia, Frazzanò, Petralia Sottana e Aliminusa.

Ad Agrigento San Calogero viene venerato come fosse il santo patrono, che in realtà è San Gerlando.

I festeggiamenti si protraggono per otto giorni e vanno dalla prima alla seconda domenica di luglio. In questo periodo in città si respira un’aria di festa anche grazie alla presenza delle luminarie, disposte lungo le vie principali, e della fiera, con le coloratissime bancarelle in cui è possibile gustare leccornie a volontà, in particolare la cubaita di mandorle o di giuggiulena di sesamo e il torrone tradizionale, e la tipica “calia e simenza” a base di ceci e semi di zucca.

Qualche tempo prima dei festeggiamenti ufficiali è possibile assistere per la città alle esibizioni dei tammurinara di San Calò che con il ritmo incalzante dei loro tamburi inneggiano al Santo Nero.

Le loro esibizioni continuano durante i festeggiamenti raccogliendo intorno un gran numero di persone che assistono compiaciute alla performance. Già il venerdì precedente la prima domenica di festa iniziano i pellegrinaggi al Santuario e le funzioni religiose dedicate. Solitamente si tiene anche “U Venniri a Villa”, una manifestazione in cui è possibile gustare i prodotti enogastronomici tipici della zona.

Il pellegrinaggio o viaggio si compie durante tutto il periodo di festa secondo le promesse fatte da uomini e da donne che a gruppo, talvolta a ppedi scavusi cioè a piedi scalzi , si recano al santuario recitando mentalmente o oralmente le preghiere di ringraziamento o di supplica al Santo.

In passato il viaggio terminava non di rado con la lingua a strascinuni, espressione indicante il fatto che il devoto percorreva il tratto dall’entrata della chiesa fino all’altare con la lingua poggiata sul pavimento.

La domenica la festa ha inizio già con “l’alborata” ovvero lo sparo dei mortaretti. Il simulacro del Santo, una copia in vetroresina dell’originale del XVI secolo, viene portato fuori dal santuario a spalla dai portatori di San Calò, che indossano una casacca bianca e una bandana rossa, esattamente a mezzogiorno la prima domenica e alle tredici la seconda.

Il Santo Nero è accolto dagli applausi e dalle urla di gioia dei devoti in un ritmo frenetico che vede l’intensa partecipazione di tutti che, come gli stessi portatori, cercano di salire sulla vara per poterlo abbracciare e baciare e per chiedergli una grazia.

Chi vi riesce può perfino asciugare il sudore del Santo e portare con sé il fazzoletto intriso di quella benedizione che solo San Calò è in grado di dare. Morbide pagnotte, precedentemente benedette, piovono da ogni dove a simboleggiare la carità del monaco che in passato le ha raccolte per i bisognosi.

La gente comune ora le chiede a chi le ha promesse come ex voto per una grazia ricevuta e per questo non di rado rappresentano parti anatomiche collegate alle malattie.

È meraviglioso vedere tra la folla i genitori innalzare a San Calò per promessa i loro bambini che indossano le “vestine bianche”, ovvero i vestitini bianchi di buon auspicio per il loro futuro. Il simulacro viene fatto dondolare, quasi ballare, e i portatori cantano simultaneamente “Pepiti pepiti San Calò”, un’espressione che indica il movimento che si fa dondolandosi. Si aggiungono altre invocazioni al Santo: “E chiamamu a cu nn’aiuta! Evviva San Calò!

La processione, con il Santo portato a spalla dai portatori e fatto barcollare a destra e a sinistra in un arcano rituale che sprigiona grande energia vitale, prosegue per le vie cittadine: via Atenea, via Garibaldi e così fino all’Addolorata, dove alle 18.00 il simulacro viene posto sul carro trionfale.

Un tempo era in uso rifocillare i devoti con maccheroni e vino.

Alle 20:30 la processione ricomincia, seguita dalle autorità comunali e dalle confraternite di Agrigento, e attraverso le strade cittadine giunge al viale della Vittoria dove si tiene lo spettacolo pirotecnico detto “a maschiata di San Calò”.
Dopo di ciò è ormai notte e il Santo viene fatto rientrare nella sua chiesa, non prima però di essere stato nuovamente acclamato, baciato e abbracciato dai suoi devoti che mai lo abbandonano e che con mestizia si decidono a fargli varcare la soglia del santuario.

La sera della seconda domenica di luglio vede l’entrata definitiva del monaco carismatico nel suo luogo di abituale permanenza. Adesso gli agrigentini, che fino a quel momento si erano astenuti per devozione, possono finalmente andare al mare.

 

Il luogo di culto: il Santuario di San Calogero

San Calogero ha un luogo di culto tutto suo, un santuario dedicato che non può non essere meta di pellegrinaggio del devoto più fervente come del semplice turista che giunge in città. Da qui, infatti, il Santo, raffigurato in un simulacro in pietra posto nella nicchia esterna sopra il portale della facciata principale, si affaccia benevolo come a vegliare sulla città, a proteggere gli agrigentini che tanto lo amano.

La chiesa si trova in uno dei luoghi più centrali della città, sorge infatti in piazzetta San Calogero, collocata tra il viale della Vittoria e il piazzale Aldo Moro, a due passi da via Atenea e dalla stazione centrale.

L’edificio risale a un’epoca compresa tra il XIII e XIV secolo, quando la città era governata dalla famiglia Chiaramonte, e secondo la tradizione il carismatico monaco ha soggiornato proprio in quel luogo.

L’edificio ha vissuto alterne vicende. Nel 1573 fu costituita una confraternita di ottantasei cittadini, di cui solo nove ecclesiastici, che si impegnarono a far ampliare la chiesa per accogliere anche un oratorio. Nel 1598 il culto del Santo crebbe ulteriormente grazie al fatto che Papa Clemente VIII aveva approvato la celebrazione dei festeggiamenti in onore del monaco in tutta la Sicilia, da ciò anche il santuario ne trasse grande giovamento. Dopo un periodo di totale abbandono nei primi decenni del Novecento, la chiesa fu restaurata e nel 1977 fu elevata a santuario.

L’interno dell’edificio presenta una divisione in tre navate tramite una doppia fila di sei colonne corinzie. La cappella, posta al centro, ospita la nicchia dove è custodito il simulacro di San Calogero realizzato in legno e risalente al XVI secolo ed è decorata con pregevoli stucchi che riportano i simboli identificativi della vita del santo e cioè il bastone e la cerva.

Di particolare rilevanza sono i mosaici dorati e policromi raffiguranti l’Occhio Divino, il calice con l’ostia e la colomba dello spirito santo. L’altare è stato realizzato in legni pregiati con tarsie in bois de rose forse da artisti cappuccini nel XVI secolo. Infine, nella zona della sacrestia sono raccolti gli ex voto che rappresentano l’intervento miracoloso del Santo in risposta all’invocazione di aiuto dei fedeli, talvolta sono riproduzioni di parti anatomiche collegate alle malattie patite oppure si tratta di oggetti d’oro, dipinti e altro ancora.

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Tracce ed orme della nostra Storia: una Nuova Serie alla Scoperta della Sicilia

“Tracce ed orme della nostra Storia” è la prima serie tv che si propone di portare all’attenzione dello spettatore i luoghi e i territori ancora nascosti della Sicilia, poco noti persino ai grandi motori di ricerca.

 

Questa serie tv, realizzata in via sperimentale nella zona orientale dell’isola, è un’iniziativa dedicata al turismo culturale, la cui particolarità sta proprio nell’aver deciso di occuparsi di tesori semi sconosciuti: i siti visitati non sono rintracciabili tramite Google Maps o su Wikipedia.

 

Le prime puntate sono state realizzate in collaborazione con la testata web topbtw.com e sono state già trasmesse da alcune tv private: Canale 2 e LaTtr3 di Marsala, Televallo e Tele8tv di Mazara del Vallo.

 

Ai servizi televisivi, ancora in fase di realizzazione, hanno collaborato numerosi professionisti del mondo dell’informazione culturale, con la preziosa collaborazione tecnico-scientifica di Mario Tumbiolo, noto architetto di Mazara del Vallo.

Il progetto “Tracce ed orme della nostra Storia”, presentato all’Assessorato ai Beni Culturali della Regione Sicilia nel quadro delle iniziative dedicate allo sviluppo della cultura siciliana, è articolato per argomenti.

La Sicilia mostra così località capaci di soddisfare la curiosità di storici, appassionati di avventure o semplici curiosi che intendano andare a fondo nella scoperta di una terra ricca di storia ma proiettata nel futuro.

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Le tradizioni nel mondo: diversità e uguaglianze

articolo le tradizioni popolari ed il il mondo giovanile

« Le storie antiche sono, o sembrano, arbitrarie, prive di senso, assurde, eppure a quanto pare si ritrovano in tutto il mondo. Una creazione “fantastica” nata dalla mente in determinato luogo sarebbe unica, non la ritroveremmo identica in un luogo del tutto diverso ».

(C. Lévi-Strauss)

 

Secondo Lévi-Strauss teorico dello strutturalismo, esistono “diversità” fra il racconto mitico e quello storiografico, asserendo tuttavia che in questi racconti esiste anche una sorta di “continuità”.

 

I racconti mitici che sono o appaiono racconti privi di senso e talvolta assurdi, risultano essere in effetti «sistemi chiusi» di pensiero «che possiedono identiche strutture formali di base e contenuti variabili».

 

Le tradizioni nel mondo in fondo non sono poi così differenti, mantengono infatti una stessa identica sostanza: le usanze, nella maggior parte dei casi, sono legate agli eventi religiosi, oppure ai momenti particolari della vita delle persone, come il matrimonio, la nascita o la morte.

Dunque se è la sostanza ad essere mantenuta, sarà la forma ad assumere su di sé la particolarità e la diversità dei costumi di ogni popolo del mondo.

L’attività folklorica promossa dai vari gruppi folk presenti su territorio nazionale e internazionale, e nella fattispecie agrigentina, ha non solo l’onere ma anche l’onore di ricevere e trasmettere nel mondo la cultura popolare delle antiche tradizioni.

I viaggi e le varie esperienze all’estero danno la possibilità difatti di allargare i propri orizzonti e di conoscere le diverse manifestazioni culturali che un popolo “diverso” dal nostro, legato alla terra da cui ha avuto origine, sa raccontare.

festival bambini del mondo gruppo folkloristico gergent

Moltissime nel corso degli anni le tournée all’estero del gruppo folkloristico Gergent e tantissimi, naturalmente, gli insegnamenti tratti.

Europa, Asia, America, Africa: Occidente e Oriente sono le due facce della stessa medaglia, un unico globo terrestre che gira sempre su se stesso.

Si dice che ogni mondo è paese, ed in ogni città, in ogni piccola comunità è possibile ritrovare qualcosa di unico e al contempo simile al tuo piccolo mondo.

Le spezie, i profumi, i tessuti, i racconti, i balli, le canzoni hanno in sé l’unione e l’amore di un popolo in continua ricerca di se stesso e delle sue primitive origini.

Il folklore non conosce distinzioni di razza, di religione, di sesso ma solo la passione travolgente di un sorriso, di una carezza, di un bacio, il sale che dona gusto alle differenze.

festival bambini del mondo gruppo folkloristico gergent al tempio della concordia ad agrigentoOgni anno la festa del mandorlo in fiore, oramai giunta alla sua 73° edizione, si propone come audace messaggero di pace e fratellanza in un mondo che è sempre più dilaniato e lacerato dalle guerre fisiche e morali, dalle incomprensioni, dalle brutture dell’animo umano, dai pregiudizi che spesso finiscono per diventare spessi come muri e pesanti come macigni.

Dietro un’origine si nasconde una storia, prende forma il ramificarsi di un’identità, una traccia dell’essere che permette di distinguere un individuo, un gruppo, una cultura, apparentemente differente ma in fondo uguale.

Se viaggiare è il modo più naturale per immergersi nei costumi di altri paesi, accogliere e personalizzare le diverse tradizioni è uno dei tanti modi per presentare ai noi stessi, realtà differenti dalla nostra.

Una festività speciale, un’usanza, permettono di scoprire in modo divertente affinità e disuguaglianze tra popoli, insegnando a conoscere meglio l’amico straniero, il vicino di casa, il compagno di scuola, facendoci sentire più vicini e meno distanti.

Fare parte dell’associazione culturale Gergent significa anche questo: imparare a conoscere e ad apprezzare quanto di diverso appare ai tuoi occhi, ai tuoi gusti, ai tuoi gesti; capendo che in realtà esiste altro ma che si trova semplicemente al di fuori del tuo confine, confine che tu stesso inconsapevolmente hai creato e forse un po’ cercato.

Il Gruppo folklorico Gergent partecipando ai vari festival internazionali e locali, è inequivocabilmente portato ad interagire ed a colloquiare con gli altri gruppi stranieri partecipanti e provenienti da ogni parte (Polonia, Russia, Messico, Portogallo, Ucraina, India, Giappone, Corea del sud, e così via) per cui non poche sono e sono state le varie usanze apprese nel corso degli anni.

Per riportarne alcune ricordiamo ad esempio la festa di Primavera festeggiata in Romania ogni anno nel periodo di marzo, in cui viene regalato un dono a chi si ama, agli amici e ai parenti lontani, un’usanza che muta nel tempo ma sopravvive alle guerre, alle emigrazioni, ai muri.

Il Martisor così viene chiamato il dono elargito; un ciondolo che contiene un fiore ed è legato secondo la tradizione ad un cordoncino intrecciato rosso e bianco.

Altro esempio è quello di una tradizione vietnamita, molto insolita ai nostri occhi, legata alla nascita laddove si usa rivolgersi al bambino con aggettivi dispregiativi come “brutto” o “rospo” perché si crede che gli spiriti maligni perseguitino i bambini più belli.

In Ucraina, il Natale sembra ricordare quasi la festa di Halloween, i tradizionali alberi infatti vengono addobbati con ragnatele di carta, plastica o metallo; in ricordo di un passato dove la miseria era predominante, ed i poveri, che non si potevano permettere gli addobbi, decoravano così gli alberi di Natale.

Ancora, un’usanza coreana vuole che, per rendere il nubendo più forte la prima notte di nozze, gli amici dello sposo dopo la cerimonia si tolgano i calzini e pestino con le piante dei piedi dei corvina gialli essiccati, che sono un tipo di pesce.

Il significato dietro questo rituale sarebbe che il pesce dovrebbe infondere al novello marito intelligenza e forza, che gli saranno poi utili nel matrimonio, e le frustate indice di incoraggiamento ad adempiere ai propri doveri coniugali la prima notte di nozze.

Molte e soprattutto diverse le tradizioni del mondo che sicuramente, come abbiamo detto inizialmente, conservano alla base una identica struttura cambiandone, in sostanza, semplicemente la forma.

Vogliosi e speranzosi di un futuro migliore ci auguriamo che il folklore, sale dei popoli, incrementi la voglia e lo spirito di unione, di integrazione, di conoscenza, portando alti i valori dell’amore, della solidarietà, della pace nel mondo.

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Il ballo delle polarità

“Ti muovi sulla destra poi sulla sinistra resti immobile sul centro provi a fare un giro su te stesso, un giro su te stesso. “You miss me and I miss you” (Il cerchio simbolizza T’ai chi che è informe e al di sopra di ogni dualità. Qui esso manifesta se stesso, come il progenitore dell’universo. E’ diviso tra Yin (il buio) e Yang (la luce) che significa polo negativo e polo positivo. Coppie di opposti, passivo e attivo, femmina e maschio, luna e sole). Gli aborigeni d’Australia si stendono sulla terra, con un rito di fertilità vi lasciano il loro sperma.”

Battiato “Il ballo del potere”

 

Il Ballo rappresenta da sempre un mezzo attraverso il quale i popoli da sempre hanno potuto “vivere” le emozioni. Il ballo è movimento, è alternanza di polarità, è l’alternanza delle stagioni.

 

Nel movimento del Ballo c’è la dinamicità e la vitalità di ogni cosa. Ma il movimento è anche nelle nostre relazioni, tra due amanti, tra i passanti.

 

Basta osservare due corpi in interazione tra loro e si può cogliere la “danza” dei loro corpi.

Il movimento dell’uno interviene nel movimento dell’altro e viceversa, in una danza continua. Siamo movimento, alternanza di emozioni e sensazioni.

Così le polarità, Yin (il buio) e Yang (la luce), il passivo e l’attivo, femmina e maschio danzano alternandosi in un movimento che dà ritmo e che completa.

L’uomo è il risultato di polarità, “danza” continuamente lungo un continuum fatto di estremi opposti.

“Tutto è duale, tutto ha due poli, ogni cosa ha il suo opposto. Ogni cosa “è” e “non è” allo stesso tempo, ogni verità non è che una mezza verità e al contempo una mezza falsità. Gli opposti condividono la stessa natura in gradi diversi, gli estremi si toccano, tutti i paradossi possono essere riconciliati.”

(Il Kybalion)

 

Nella vita diventa importante alternare e far “emergere” gli opposti.

Si può prendere in considerazione i due aspetti “opposti” per antonomasia nella vita dell’uomo: Apollineo e Dionisiaco. Il primo ha a che fare con gli aspetti più “razionali”, i “piedi per terra”, tutto ciò che rimanda alla logica e alla ragione, il secondo, viceversa riguarda gli aspetti che riguardano “l’istinto”, “il lasciarsi andare”. Il “cristallizzarsi”, la “staticità” dello stare in una sola delle due polarità comporta rigidità, disagio e il “non sentirsi completi”.

La possibilità di danzare tra le polarità rende fluidi, spontanei e completi.

Hermann Hesse nel suo romanzo “Narciso e Boccadoro” mette in risalto, attraverso i protagonisti, le due polarità della Natura e dello Spirito. Narciso rappresenta la Natura ed utilizza solo i sensi per leggere la vita e Boccadoro lo Spirito, con l’utilizzo unico di questo.

Infine nel ballo delle polarità non possiamo non ricordare C.G. Jung.

Secondo l’Autore l’energia psichica fluisce tra polarità che sono opposte: logos/Eros, Potere/Amore, Io/Ombra, Razionale/Irrazionale, Sessualità/Religione, Contenitore/Contenuto, Individuale/Collettivo, ect.

Non ci resta che ballare e danzare a ritmo delle polarità della vita.

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Influenze Della Lingua Spagnola Sul Siciliano

La Sicilia è una terra dall’immenso patrimonio storico e culturale dovuto, in modo particolare, agli influssi delle popolazioni straniere che l’hanno conquistata e colonizzata.

 

Per questo il siciliano è una lingua che si è trasformata e ha assorbito molte parole provenienti dai conquistatori.

 

Comunemente parliamo di dialetto siciliano, in realtà l’Unesco ha stabilito che il siciliano non è un dialetto bensì una lingua madre, anche se già alcuni filologi di fama internazionale avevano descritto la parlata dell’isola come abbastanza distinta dall’italiano tipico tanto da potere essere considerata un idioma separato; ciò è evidente da un attento studio della fonologia, della morfologia, della sintassi e, nello specifico, del lessico.

 

Quando si parla di influenze della lingua spagnola si deve intendere l’eredità linguistica lasciata in Sicilia dalle diverse genti iberiche, quindi aragonesi, castigliani e catalani.

 

L’influenza della lingua spagnola cominciò quando una rivolta popolare, conosciuta come i Vespri siciliani del 1282, cacciò il francese Carlo d’Angiò, ma la Sicilia rimase comunque in balia di uno straniero, Pietro d’Aragona, che aveva appoggiato la rivolta e i rivoltosi. Dopo una lotta tra Angioini e Aragonesi per ottenere il potere nell’isola, con la Pace di Caltabellotta nel 1302 la Sicilia fu assegnata agli Aragonesi. Nel 1479 l’isola fu dichiarata vicereame spagnolo e rimase alla Spagna fino al 1712, quando passò sotto il dominio dei Savoia.

Quindi gli Spagnoli Borboni occuparono la Sicilia per 500 anni e le loro espressioni si fusero con la lingua locale. Durante questo periodo, la lingua siciliana riuscì a godere di ufficialità e prestigio. Fin quando il Re di Spagna Alfonso V° unì la Sicilia e Napoli, introducendo come lingua il Castigliano.

 

Dunque l’influenza della lingua spagnola sul siciliano è stata di tale portata che ancora oggi vi sono espressioni e termini di origine spagnola usati dai siciliani nella loro quotidianità.

 

L’influenza delle lingue iberiche sulla parlata dell’isola è evidente, ad esempio, nelle terminazioni verbali dell’imperfetto (-ìa, come in dicìa, facìa) e del condizionale (-ìa, es.: dirìa, farìa), nell’uso di sostituire il condizionale dell’apòdosi nel periodo ipotetico, sia di secondo che di terzo tipo, col congiuntivo passato o trapassato, come nell’espressione: “Si me hubiera llamado, no hubiera ido” in castigliano; “Si m’avissiru chiamatu, nun cc’avissi jutu” in siciliano. Altra regola grammaticale comune è quella dell’uso nel complemento oggetto della preposizione “a” con nomi propri o comuni di persone, per esempio: “Esperamos a tu hermano” in castigliano, “Aspittamu a tò frati” in siciliano.

Si tratta di costruzioni sintattiche spesso scambiate per errori dovuti all’ignoranza.

Dal castigliano derivano numerose perifrastiche; in particolare vi è la costruzione “havi” + complemento di tempo + “ca” + verbo (es.: “Havi dui anni ca nun niscèmu nzèmmula” in siciliano, “Hace dos años que no salimos juntos” in castigliano); e la costruzione del verbo “aviri” + “a” + infinito (es.: “Tengo que ir” in castigliano, “Haju a jiri” in siciliano). Infine, sopravvivono ancora esclamazioni come “Vàja!”. Dal catalano proviene il verbo “dunari” (“donar”) e il pronome relativo e congiunzione “ca” derivante da “que”.

Ecco un elenco di parole usate in Sicilia di derivazione spagnola:
curtigghiu (cortile) da cortijo; lastima (lamento) da làstima; pignata (pentola) da pinàda; cucchiara (cucchiaio) da cuchara; cascia (cassa) da caixa, scupetta (lupara) da escopeta; manta (coperta) da manta; zita (fidanzata) da cita; anciova (acciuga) da anxova; tiempu (tempo) da tiempo; vientu (vento) da viento; chianu (piano) da llano; chiavi (chiave) da llave; fastuchi (pistacchi) da festuc; muccaturi (fazzoletto) da mocador; chiamari (chiamare) da llamar; accabbari (concludere) da acabar; acciaffari (schiacciare) da aixafar; abbuccari (cadere) da abocar; accupari (soffocare dal caldo) da acubar; addunarisi (accorgersi) da adonar-se; affruntàrisi (vergognarsi) da afrontar-se; capuliari (tritare) da capolar; priàrisi (rallegrarsi) da prear-se; sgarrari (sbagliare) da esgarrar; nzittari (indovinare) da encertar; etc.

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I costumi tipici siciliani del gruppo folkloristico Gergent

i costumi femminili del gruppo folkloristico gergent

Il termine tradizione, dal latino traditiònem (deriv. da tràdere = consegnare, trasmettere) può assumere diverse accezioni: nel nostro caso la utilizzeremo come sinonimo di consuetudine, intendendo con questo termine, la trasmissione nel tempo, all’interno di un gruppo umano, della memoria di eventi sociali o storici, delle usanze, dei riti, della mitologia, delle credenze religiose, dei costumi, delle superstizioni e leggende.

Le tradizioni popolari o folkloristiche sono in questo senso una consuetudine, le danze, i canti, i proverbi, gli antichi mestieri che attraverso le tradizioni di un popolo si mantengono in vita e che il Gruppo Folklorico Gergent con la sua attività costante, in campo nazionale e internazionale, porta avanti da circa ventisei anni.

i costumi maschili del gruppo folkloristico gergentLo studio, quale ricerca “storica” inerente ai balli, ai canti, ai costumi e agli utensili utilizzati, non è mai mancato al presidente Claudio Criscenzo prima, e al figlio Luca dopo, che con non grande passione per l’arte e la cultura in generale, l’hanno sempre portato avanti, facendone anzi un punto di forza e di peculiarità del gruppo Agrigentino.

Dell’innumerevole patrimonio di costumi tipici siciliani, purtroppo oggi non resta molto, essendo oramai quasi del tutto spariti; tuttavia, qualche traccia la si può ritrovare nei paesi dell’entroterra siciliana dove ancora oggi usi e tradizioni sono più radicati, e con essi alcuni costumi tradizionali sia maschili che femminili.

Tutto quello che oggi sappiamo sui costumi lo dobbiamo al grande maestro delle tradizioni popolari siciliane Giuseppe Pitrè, che nel corso dei suoi anni raccolse e poi riunì in un museo etnografico da lui fondato nel 1909, diviso in 20 sezioni, documentazioni sugli usi e sui costumi del popolo siciliano, insieme alle credenze, ai miti, alle tradizioni di Sicilia (la casa, filatura e tessitura, arredi e corredi, i costumi, le ceramiche, l’arte dei pastori, caccia e pesca, agricoltura e pastorizia, arti e mestieri, e così via).

In Sicilia i costumi tradizionali antichi erano piuttosto semplici, variegati e in alcuni casi anche ricchi. L’abbigliamento tradizionale della donna e dell’uomo siciliano erano dunque composti da diversi capi realizzati con diverse fogge e fatture, e spesso e volentieri anche i colori variavano; gli abiti dei giorni quotidiani inoltre erano distinti da quelli della festa.

I costumi a cui il gruppo Gergent rimanda sono un rifacimento pressoché verosimile degli abiti dei popolani e delle popolane dell’ottocento siciliano.

Il costume femminile è composto: da una gonna lunga di broccato blu, rossa, gialla o da gonne nere orlate con pizzo sangallo; da un grembiule di cotone bianco o a fiori, oppure di lino a seconda dell’uso; dai mutandoni in cotone bianco, che coprono le gambe sino alle ginocchia, arricchiti da pizzo san gallo e da un nastrino rosso all’estremità; da calze di lana o di cotone (a seconda della stagione); da scarpe di pelle nera con punta leggermente arrotondata e da una fibbietta sul collo del piede.

La parte superiore è composta da un gilet nero di velluto orlato da una passamaneria a fiori per decorare e rifinire il corpetto, stretto e allacciato da un filo di coda di topo lucida di raso rosso; la camicia bianca fornita di pizzo san gallo nel girocollo e nei polsini con un nastrino rosso intrecciato ad esso.

Il capo è acconciato da alcuni spilloni e fiori che servono a rendere più prezioso il “tuppu”, ciò deriva da un’antica usanza di raccogliere i capelli delle donne per facilitarne il lavoro e altresì per essere più sistemate e non avere la necessità di lavare i capelli, data la scarsa possibilità di un tempo. Il capo è inoltre talvolta coperto da un “fazzulettu”, a seconda delle occasioni, di lavoro o di festa.

Il fazzulettu talvolta poteva essere di pizzo nero o bianco o di cotone. Durante le processioni, infatti, le donne solevano abbinare ai propri capi di tutti i giorni un pezzo più raffinato, che veniva per l’appunto dedicato alle grandi occasioni, questo poteva essere di pizzo bianco o nero.

Il vestito viene completato da una mantellina di lana, generalmente nera e lavorata a mano, che veniva indossata per qualsiasi evenienza. Infatti sempre il Pitrè ci riporta che lo scialle era un capo universale, che andava bene per ogni ora del giorno e della notte e per ogni stagione e veniva indossato dalle donne siciliane per andare al mercato oppure in città, a sbrigare le commissioni per la casa. Il manto aveva anche in un certo senso una funzione sociale. A Messina, chiamavano il manto ‘orate frates’ perché all’occorrenza consentiva alle ragazze di scoprirsi per mettere in evidenza il collo e il seno.

In altri luoghi dell’Isola invece, la mantella aveva il compito di distinguere le donne di buona famiglia da quelle appartenenti ai ceti meno abbienti e dunque possederlo era un vanto, ma anche una ricchezza per una donna dell’epoca.

L’abito maschile rimanda anch’esso a quello tipico dei popolani dell’ottocento ed è costituito: da camicia bianca di cotone; gilet a coste di velluto nero con bottoni neri e una fibbietta nella parte posteriore; da un fazzoletto rosso posto sul collo o sul capo, se utilizzato durante la raccolta dell’uva o la mietitura del grano, per far sì che tutto il sudore venisse trattenuto e asciugato dallo stesso; ed infine dai pantaloni sempre a coste di velluto nero, detti in siciliano “causi” lunghi fino alle ginocchia con delle aperture ai lati e stretti da un bottone, senza apertura davanti bensì sui fianchi, ai quali viene poi abbinata una fascia di lana in vita di colore rossa o gialla che funge da ‘panzera’.

Le scarpe sono basse nere a punta rotonda mentre i calzettoni sono o di cotone o di lana bianca. L’abito può talvolta essere completato da una “coppula” nera di velluto oppure da una giacca di velluto a coste nera, in occasioni di festa.

Il Pitrè ancora una volta è essenziale per la nostra ricerca sui costumi e per quanto concerne l’abito maschile si apprende che innanzitutto anche gli abiti che venivano indossati dagli uomini si potevano dividere in abiti per le attività quotidiane e per le occasioni speciali.

Una prima differenza si ha invariabilmente con il passaggio da un ceto all’altro.

L’abito era più semplice tanto più basso era il rango sociale difatti, quello più semplice era dei pastori. I contadini si vestivano invece con dei pratici ‘causi’, ai quali veniva poi abbinata una cintura in vita che solitamente era una fascia in tessuto; in essa infatti il contadino poteva riporre alcuni piccoli attrezzi per la pausa, come i coltellini che servivano a creare “i friscaletti”, i piccoli strumenti a fiato del folclore musicale, oppure il pranzo. In seguito, con il passare delle epoche, i calzoni si allungarono, le giacche si accomodarono al corpo e stoffa e colore iniziarono ad essere associati all’appartenenza sociale.

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La Danza Pagana: un senso di catarsi

All’aurora all’aurora tamburi in lontananza
E si fa’ festa con la danza, con la danza.
E c’e’ un ritmo che ci prende che ci fa’ cantare
e’ africana e’ africana viene dal ma…re.
E a meridiana a meridiana la musica e’ vicina
La radio va’ la radio suona, africana.
Madre mia madre ribelle,
Come e’ forte questa danza
Come brucia questo sole sulla pelle,
Luna mia luna pagana che ci fai danzare
Candelora candelora vieni dal mare.
Africana, suona suona
E’ dal mare che nasce l’anima pagana
E’ la musica che ci chiama e’ africana e’ africana,
Africana, danza danza, onda onda l’anima pagana
Avanza avanza, aria e aria, ora e ora, e africana.
E’ quando e’ notte, e’ quando e’ notte
Oh madre quando e’ notte,
La musica si fa’ piu’ forte quando e’ notte.
O madre mia madre d’argilla
Stanotte quante stelle,
E il vento soffia sulla pelle iappa da peppe
E c’e’ un ritmo che ci prende non ci fa’ dormire
E’ africana e’ africana viene dal mare.
Africana, suona suona e’ dal mare che nasce l’anima pagana
E’ la musica che ci chiama e africana e africana, africana, danza danza,
Onda onda l’anima pagana avanza avanza, aria e aria, ora e ora, e africana e africana

Danza Pagana, Mia Martini

 

In questa magnifica canzone di Mia Martini vengono racchiuse le caratteristiche della danza pagana.

 

Ci sono gli elementi della natura, il mare, la luna, la notte, il vento che accompagnano con la musica la danza.

 

Si tratta di una danza che ha avuto nel passato, e nelle diverse fasi storiche, diversi significati, ma sicuramente una danza il cui scopo principale è di catarsi e libertà.

Se pensiamo, ad esempio, alla tarantella (taranta nel territorio pugliese) è evidente il rimando alla catarsi intesa come guarigione dal morso della taranta (considerata il simbolo dei mali).

Nel Paganesimo le danze accompagnavano quasi sempre le pratiche e i riti. Un esempio ancora oggi presente nel Mediterraneo, nello specifico nell’Arcipelago della Grecia, è il Panegiri (greco antico: πανήγυρις “raduno”). Si tratta di un’assemblea generale, nazionale o religiosa dell’antica Grecia. Nel passato ognuno era al culto di un dio particolare.

Ancora oggi in Grecia vengono celebrati questi balli, in cui la gente si riunisce e si balla fino a notte fonda, in un ritmo crescente. Alcuni ritengono che la danza sia legata (in molte zone della Grecia) al dio Dioniso (in greco attico: Διόνυσος; in greco omerico: Διώνυσος; in greco eolico: Ζόννυσσος o Ζόννυσος, dio dell’estasi, del vino, dell’ebbrezza e della liberazione dei sensi).

Di fatto chi ha partecipato parla di atmosfera dionisiaca, in cui musica e ritmo crescente (ma anche il vino) creano una condizione di “alterazione” dalla realtà e di “catarsi”.

Che sia vero o meno, di fatto non si può negare il senso di leggerezza e di libertà che si crea nel ballare in gruppo al suon di musica.

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