La Sagra quando abiti al nord

partecipante alla festa del mandorlo in fiore

Quando arriva Pasqua pagherei oro per farmi una bella cantata di “Ah, si versate lacrime” davanti la Chiesa di San Domenico.

 

D’estate, manco a dirlo, i pensieri sono tutti occupati dal mare, le spiagge e San Leò.

 

A dicembre mi mancano le novene di Natale e i panini cà meusa. Ma anche le giocate a carte con amici e parenti e le passeggiate al Lungomare, le mattine di gennaio, che c’è ‘u beddru suli cà veni u còri.

E poi c’è febbraio, che è sinonimo di mandorli fioriti e di Sagra.

 

Manco da 17 anni da Agrigento. Anzi, dal mio amato Villaggio Peruzzo, luogo che cito non solo per amore ma anche perché era un posto strategico adibito, all’epoca, al parcheggio dei bus dei gruppi che venivano da tutto il mondo.

I miei ricordi legati alla Sagra del Mandorlo in Fiore sono tanti e belli sapuriti.

Avevo 18 anni e una compagna di liceo che ballava in un gruppo folkloristico (Ciao Valeriù!).

Ci faceva entrare gratis agli spettacoli al Palacongressi e ci forniva i programmi dettagliati della manifestazione.

Quella settimana, quella della Sagra, per me e le mie amiche, era tutto un correre e prepararsi per assistere ai vari spettacoli in giro per la Città.

Era una festa e noi, giovani spettatrici, allungavamo l’occhio sia per gli aitanti e stranieri ballerini che per i fa-mo-sis-si-mi accompagnatori che, generalmente, erano i ragazzi più beddri e più “famosi” di Giurgè.

Dove te la vedi la fiaccolata?” Noi ci mettevamo sempre al curvone tra via Callicratide e via Manzoni.

Che li, i gruppi , abballàvano sempre. E come non pensare allo spettacolo finale ai templi. Dal Villaggio Peruzzo partivamo a piedi . Che il traffico, fino ad Annense , era chiuso.

Era una festa anche per questo. Non capitava di poter godere della bellezza della campagna di quel tratto di strada sempre tanto trafficato.

Mentre scrivo mi è venuto un poco di allammicu.

E non solo perché ho appena messo mani a ricordi che non credevo di avere più.

Mi è venuta nostalgia, come spesso accade, perché quando io ad Agrigento ci vivevo non apprezzavo come avrei dovuto quello che avevo.

Sagra compresa. Lo so, ogni anno, sui social (benedetti per chi vive lontano da casa!), è tutto un “La Sagra non è più quella di una volta” o “Schifio, 4 gruppi fitùsi”.

Sapete che c’è?
Beati voi.

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MANDORLARA contagia PALERMO

mandorlara a palermo 2017

Si è tenuta ieri, 26 febbraio, a Palermo, al Mercato San Lorenzo un’eccezionale anteprima della Festa del Mandorlo in Fiore 2017 e l’inaugurazione della X° ed. della Sagra del Mandorlo a tavola: MANDORLARA 2017, coordinata dal Consorzio Turistico Valle dei Templi (promotrice) e da Salvatore Collura (ideatore dell’evento).

Durante l’anteprima al Mercato San Lorenzo a rappresentare Mandorlara saranno cinque espositori: CVA Viticultori Associati di Canicattì’, Lazzara Sicilia, Pasticceria Di Stefano, Oleificio Val Paradiso e Premiata Pizzeria Sarda Salata che proporrà uno show cooking dedicato alla regina della manifestazione: la mandorla nostrana.

mandorlara a palermo 2017Il maestro pizzaiolo Gianluca Graci (della pizzeria licatese) ha cucinato in loco, grazie a libero point un sistema di cottura mobile, versatile e compatto disegnato per contenere apparecchiature elettriche top per cuocere e servire velocemente del cibo senza necessità di avere una cucina alle spalle, e con l’innovativo triplo filtro anti odori, offerta dallo sponsor di Mandorlara 2017: Sagrim-Electrolux; preparando la pizza fritta a base di una miscela di farina segreta, di loro produzione; a crudo alcuni semplici ingredienti: mozzarella di bufala ragusana, pomodori datterino, mentuccia, aglio, colatura di alici con ovviamente la mandorla in granella sul finale.

A rallegrare la giornata le esibizioni dei “Tammura di Girgenti”, storico gruppo di musicisti che da sempre accompagna le celebrazioni della festa di San Calogero, guidati dal giovane Biagio Licata in alcuni live show veramente coinvolgenti.

Sul palco (al mattino) la giornalista Irene Melisenda e la responsabile della comunicazione del Mercato San Lorenzo di Palermo hanno moderato le interviste, al commissario dell’Ente Parco Archeologico (a cui quest’anno è affidata la organizzazione della 72° sagra del Mandorlo in Fiore) Bernardo Campo, e all’ideatore della Sagra del mandorlo a tavola: Salvatore Collura, anche in veste di rappresentante del Consorzio Valle dei Templi di Agrigento da alcuni anni.

“Mi scuso per la mia assenza dovuta ad impegni di lavoro purtroppo ineludibili. Desidero ringraziare il San Lorenzo Mercato per l’opportunità che ci ha voluto offrire di essere stati presenti in questo posto meraviglioso, che sa essere il contenitore del meglio che la nostra terra sa offrire. Per questo, insieme al Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi, abbiamo abbracciato con entusiasmo l’idea di proporre qui un’anteprima della Festa del Mandorlo in Fiore.

Colgo quindi l’occasione per formulare l’invito a tutti i palermitani di venire a scoprire e riscoprire il Mandorlo in Fiore, una festa splendida e carica di significato, che quest’anno vedrà una delle proprie edizioni più belle di sempre”

ha dichiarato il presidente del Consorzio Turistico Valle dei Templi di Agrigento, Fabrizio La Gaipa, promotore della Sagra- Mandorlara 2017.

L’appuntamento di domenica si è concluso con una eccezionale dimostrazione di pasticceria ad opera del pluripremiato e recordman del settore, il Mastro pasticcere Giovanni Mangione con un team di pasticceri e cake designers, provenienti da tutta la provincia, fra i quali: i Maestri fratelli Rosciglione, il Maestro cioccolatiere Gaspare Martinez, il Mastro decoratore Francesco Palumbo, il Cavaliere della pasticceria Lillo De Fraia ed il Maestro pasticcere Salvatore Palumbo; che hanno dato vita ad una torta monumentale di oltre trecento chili dedicata alla X edizione di Mandorlara.

Al successivo taglio della torta era presente una moltitudine di persone, piccoli e grandi, ugualmente curiosi di guardare la preparazione e di gustarne poi il “dolce” risultato, “mai visto, così tanti pasticceri contemporaneamente! -qualcuno, tra il pubblico trepidante, ha detto, - le decorazioni, poi, vere e proprie opere d’arte!”

Uff.Stampa Mandorlara 2017
Elisa Carlisi

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Le porte dell’accoglienza

L’accoglienza è uno dei temi più cari e sentiti tra i popoli mediterranei, e naturalmente dai siciliani. Tale concetto può fare riferimento ad un luogo, ad una persona, ad una situazione, ma di fatto si tratta dell’“incontro” tra due mondi diversi, tra due persone, tra gruppi di persone.

L’etimologia della parola deriva dal latino “accolligere”, composto da ad e colligere, cogliere, raccogliere.

Si tratta di ricevere, in particolare nella propria “casa”, con una certa predisposizione d’animo.

Riferito ad un luogo rimanda al ricevere, offrendo ospitalità.

“L’accoglienza richiede non solo una raccolta di informazioni esterne ma anche interne, emotive”. (E. Giusti).

Infatti l’emozione ci dà informazioni sulla qualità dell’esperienza (per accogliere occorre cogliere la risonanza emotiva prodotta dall’incontro con l’altro).

Da un lato l’accoglienza richiede la presenza dell’altro, del diverso, dall’altra una curiosità, un interesse.

“Un luogo accogliente” è un luogo familiare, in cui ci si sente a proprio agio, non ci si sente giudicati, e in cui è possibile essere “spontanei”.

E una persona accogliente? Quando possiamo dire che una persona è accogliente? Quando si parla di esseri umani le cose diventano più complesse.

L’accoglienza di una persona può essere colta in prima istanza attraverso la presenza del suo corpo, da come dispone questo nello spazio.

Per essere più chiari, può riguardare il modo in cui una persona ci guarda, il modo in cui entra in “contatto” con noi attraverso primariamente col suo corpo.

L’accoglienza, l’essere accoglienti richiede delle specifiche risorse psicologiche, come apertura mentale, capacità di assumere prospettive multiple, ect.

Tutto ciò è applicabile in diversi ambiti, clinico, sociale, turistico.

Partendo da quello clinico, si può definire l’accogliere come quella “attività che il terapeuta promuove per favorire il legame affettivo e creare l’alleanza operativa con il cliente” (cit.)

In altre parole “l’accogliere” rientra all’interno delle regole di un buon “setting”, creare un ambiente confortevole, affinché l’altro si senta a proprio agio, e appunto accolto.

Nell’ambito sociale e del turismo un esempio chiaro è offerto dai popoli mediterranei. Nella storia di questi popoli l’ “ospite” era (e lo è tutt’ora) “sacro”, proprio ad indicarne l’importanza.

In ambito turistico, la psicologia sociale e del turismo ha sottolineato l’idea dell’accoglienza come uno degli elementi base per un turismo sempre più multietnico e vario. “Le attività turistiche offrono grandi opportunità di crescita personale e di rafforzamento dei legami sociali.”

La prof.ssa C. Serino, in un articolo recentemente pubblicato, parla di “costruzione di comunità” e di “sviluppo di empatia”, come risonanza dell’esperienza altrui dentro di sé per una “cultura dell’incontro”. (cit.)

Per concludere vorrei raccontare un’antica storia Boliviana, raccontata e tramandata dai popoli andini.

E’ la storia di “Tunupa”. Questo era il nome dato ad una divinità andina, venerata attualmente presso alcuni popoli dell’altopiano boliviano.

E’ considerato il dio del “Volcan e del rayo”. Vi sono diverse versioni del mito. Quella a me raccontata riguarda un personaggio, “eroe civilizzatore”, che visita diversi siti dell’altopiano, ma, ripetutamente, non viene ricevuto di buona maniera (“accolto”), dalla gente del luogo. Alcune genti lo trattano addirittura male, non credendo nella sua persona e nella sua provenienza. Viene pure imprigionato.

Così lui decide di mostrare la sua vera natura e scatena una pioggia di fuoco presso i villaggi, provocando la distruzione ovunque. In seguito la sua fama raggiunge altri popoli che vennero a conoscenza del “dio” lo accolsero e lui in cambio insegnò loro diverse arti che aiutarono loro ad avere una vita migliore.

La leggenda vuole che un giorno ritornerà presso tali popoli apportando novità.

Bibliografia
L’accoglienza. I primi momenti di una relazione psicoterapeutica, Edoardo Giusti,Randa Romero overa editore,2005.
La Diversità come risorsa: il turismo come valorizzazione delle specificità culturali e come fonte di benessere psico-sociale, Serino/Turismo e Psicologia 2 (2009)

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La danza: arte e vitalità

ballerini al mandorlo in fiore agrigento

danza al mandorlo in fiore agrigentoDanzare a suono di musica, senza musica, soli o in gruppo.

La danza accompagna l’uomo in tutto l’arco della sua vita.

Basti pensare al famoso gioco/danza “giro giro tondo”, o più recentemente i video virali sul canale Youtube di bambini che danzano al suono di famose canzoni.

La danza ci “attiva”, ci dà “energia”; comporta l’attivazione di tutta una serie di muscoli e di funzioni corporee vitali, la respirazione, la coordinazione muscolare, etc. La danza ci “rende vivi”.

Martha Graham, celebre danzatrice e coreografa statunitense del XX secolo, definì la danza come “il linguaggio nascosto dell’anima”; scrive della danza:
“Credo che la ragione per cui la danza ha mantenuto intatta la propria eterna magia sia che essa è il simbolo della vita”

Persino in questo istante, mentre scrivo, il tempo sta trasformando l’oggi in ieri, in passato.

Col tempo le scoperte scientifiche più brillanti saranno riviste e superate, e ne emergeranno di nuove. L’arte, invece, è eterna, perché rivela il paesaggio interiore, l’animo umano.” (Memorie di sangue, Martha Graham)

La danza ha origini molto antiche ed ha rivestito diverse funzioni (danze religiose, danze guerriere, danze profane). La si ritrova nella mitologia e in affreschi di ogni epoca.

Nell’opera dell’Iliade, Omero, nel descrivere lo scudo di Achille, rende noto la presenza di giovani uomini e fanciulle che danzano in cerchio.

Si è ballato, e si continua a farlo, in tutto il modo, in ogni nazione, e spesso la danza ha caratterizzato anche l’identità di un popolo.

Basti pensare ad esempio all’Haka, la danza tipica del popolo MᾹORI, l’etnia originaria del popolo della Nuova Zelanda. Lo studioso Alan Armstrong, nel suo libro Games and Haka, la descrive come una complessa danza, espressione della passione, del vigore e dell’identità della razza, un messaggio dell’anima.

In un interessante articolo “La musica e la danza come terapia”, uscito nel 2015 nella Rivista della Società Italiana di Psiconeuroindocrinoimmunologia, il Professore S. Colazzo e il Professore F. Bottacciolo, trattano del ruolo della danza (e della musica) “che cura”.

La danza, come forma di arte, entra a pieno titolo all’interno delle Arti Terapie ed è stata, ed è tuttora, utilizzata per due scopi principali: la modulazione delle emozioni e il consolidamento del senso di comunità.

Si può ricordare l’esempio della “Pizzica” o “Taranta” salentina, una danza popolare ballata un tempo, e tutt’ora in alcune zone del Salento.

Questa danza è legata al rito del tarantismo: le donne morse dalla taranta, che si trovavano in uno stato di alterazione della coscienza (trance), venivano accompagnate, al suon di musica con la presenza di una vera e propria piccola orchestra, in un processo di “purificazione” dal male attraverso il ballo.

La danza coinvolge il corpo e la psiche dell’individuo.

“La danza è un’esperienza sociale, anche quando è a due. Per ballare con un’altra persona occorre aprirsi verso l’altro”.

L’ascolto del suo ritmo, la sincronizzazione del tuo corpo su quello dell’altro, il contatto sensoriale, inducono modificazioni cerebrali che ancora non conosciamo bene per la difficoltà tecnica di registrazione del cervello che danza, ma che sono intuibili e che da studi parziali emergono con chiarezza.” (S. Colazzo, F. Bottacciolo, 2015).

E’ evidente la complessità del ruolo della danza nella vita dell’individuo, la sua funzione sociale, che crea e consolida l’identità e che mette in comunicazione diverse individualità.

Voglio concludere con una frase di Vicki Baum, scrittrice, sceneggiatrice e giornalista austriaca naturalizzata statunitense: “Ci sono delle scorciatoie per la felicità, e la danza è una di queste.”

 

Bibliografia
“Maori Games and Haka: Instructions, Words and Actions”, Alan Armstrong, Reed, 2005.
“Memoria di sangue”, Martha Graham, Garzanti, 1992.
Omero, Iliade, XVIII.
Rivista della Società Italiana di Psiconeuroindocrinoimmunologia, n.2 anno 2015 pneireview.

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Sagra del Mandorlo in Fiore: gli Albori

La Sagra del Mandorlo in Fiore fa parte della vita di tre generazioni di agrigentini. Sono però ormai pochi coloro che l’hanno vista nascere e dunque non molti ne conoscono le origini.

canterini d'akragas agrigento prima edizione della sagra
Una foto raffigurante i canterini d’Akragas alla prima edizione della Sagra del Mandorlo in Fiore

La prima edizione si svolse ad Agrigento proprio ottanta anni fa, la domenica del 14 febbraio del 1937. Annunciata dalle pagine del Giornale di Sicilia del 12 febbraio e raccontata in un articolo del 16 febbraio, corredato da una foto del tempio di Giunone e da un maestoso mandorlo fiorito.

Bisogna però andare ad una giornata d’inverno di tre anni prima, cioè del 1934 per andare agli albori della Sagra.

In una saletta dell’Hotel des Temples, attorno ad un caffè, alcuni gentiluomini cominciarono a sognare di festeggiare la precoce primavera agrigentina con una manifestazione folkloristica.

Uno dei protagonisti di quella giornata racconterà agli amici i particolari di un incontro storico.

Così anche noi oggi possiamo immaginare di vedere il Conte Alfonso Gaetani, trentenne aristocratico di Naro e l’ambasciatore di Francia a Roma, conte Charles de Chambrun discutere delle bellezze della Valle dei Templi e possiamo immaginare che appena dopo quella conversazione cominciò balenare nella mente del conte agrigentino l’idea di allestire un appuntamento gioioso, una festa per celebrare la fioritura dei mandorli nella Valle del Paradiso, sotto la Fulgentissima Naro.

Presto quell’idea cominciò a camminare da sola e camminò da Naro verso Agrigento, verso la splendida Valle dei Templi dove già a gennaio fioriscono spesso i primi mandorli. E così nacque la Sagra del Mandorlo in Fiore.

La prima giornata della manifestazione, il 14 febbraio, fu funestata dalla pioggia, così si dovette rinunciare allo spettacolo previsto nella spianata del tempio di Giove e i canterini D’Akragas e quelli Etnei si esibirono sul palco del teatro municipale, il Regina Margherita.

Nei primi posti c’erano le autorità fasciste della provincia e i loro invitati.

canterini d'akragas prima edizione sagra mandorlo fiore
I Canterini d’Akragas nel 1937.

I canterini D’akragas si esibirono cantando e danzando canti e nenie quali “Canta Agrigento”, “O rinninedda”, “Jamuninni a Santulì”, “A la funtana”, “Tammuriniata a San Calò”, “Rapsodia siciliana”. Tutte esaltavano la bellezza della terra agrigentina, la religiosità popolare, le migliori tradizioni dell’anima siciliana.
Insieme ai canti folkloristici vennero inevitabilmente intonati i canti del regime più conosciuti, come Giovinezza, Giovinezza.

La mattina invece poté regolarmente tenersi la sfilata dei carretti siciliani, arrivati da ogni provincia, con partenza da Piazza Municipio sino ai Templi.

Due ali di folla seguirono per tutto il tragitto i carri, su alcuni dei quali suonavano e cantavano ragazze e ragazzi con i costumi popolari della Sicilia antica, riprodotti fedelmente già allora sulla scorta di testimonianze storiche o secondo le tradizioni locali.

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Alle origini del viale della vittoria

passeggiata cavour agrigento

Il Viale della Vittoria, o meglio la Passeggiata, come gli Agrigentini familiarmente da sempre chiamano l’unico viale alberato della città, compie un secolo e mezzo.

Il taglio della Rupe Atenea e i riempimenti eseguiti per realizzarlo impegnarono per alcuni anni innanzitutto il sedicesimo reggimento fanteria borbonico di Girgenti a partire dal 1849, dopo che si erano spenti i moti rivoluzionari e grande era la fame di lavoro nel capoluogo.

I lavori erano diretti dall’aiutante di campo di quel reggimento, Diego Sartorio.

Venne innalzato anche il muro che tuttora limita la strada sottostante e nello stesso tempo si procedette alla realizzazione delle opere necessarie per ricavare l’emiciclo che oggi denominiamo Piazza Cavour, perché pochi anni dopo la morte dell’insigne statista vi venne posto un suo marmoreo mezzo busto, che però negli anni Cinquanta è stato tolto poiché i ragazzi, fionda alla mano, prendevano di mira soprattutto il naso.

Lo storico Giuseppe Picone in una guida di Girgenti del 1882 descrive la Passeggiata come “un delizioso terrazzo, cinto da un lato da una ringhiera di ferro, e dall’altro da due lunghe fila di alberi, nel quale si gode il grande spettacolo dei nostri campi, limitati dalla zona del mare, ed ove la folla accorre alle sere estive ad allietarsi delle armonie musicali, che s’intonano in un grande emiciclo “.

Difatti già al tempo dei Borboni le bande militari eseguivano spettacoli almeno una volta la settimana e il pubblico poteva prendere posto anche nei numerosi sedili di marmo posti ai lati della piazza.

Qualche anno dopo, poco più innanzi, rispetto all’emiciclo Cavour, il Viale si arricchiva di una villetta pubblica. Venne costruito infatti il Parco delle Rimembranze, da qualche decennio ribattezzato Villa Bonfiglio.

Qui il 24 giugno 1923, dinanzi a diecimila persone e alla presenza di Sua Altezza Reale Filiberto di Savoia e del ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile, venne inaugurato il monumento di Mario Rutelli che ricorda i 500 agrigentini caduti nella prima guerra mondiale.

Quattro anni dopo apriva i battenti nel Passeggio Cavour, come intanto si cominciò a chiamare il Viale, il Grand Hotel et Agrigentum, oggi sede dell’Intendenza di Finanza, che ebbe tra i suoi illustri ospiti Re Gustavo di Svezia, i Florio e tanta nobiltà siciliana.

Disponeva di ben 120 posti letto e dalla sua terrazza si poteva godere della vista della splendida Valle agrigentina e del mare.

Erano gli anni in cui il Viale era frequentato soprattutto da molti compassati signori con l’ombrello grigio da sole, paglietta dura e giacca di alpagà, il bastoncino da passeggio o le mani dietro la schiena e un furtivo sguardo verso le signorine che passeggiavano.

Al tramonto spesso vi sciamavano “i parrineddri”, cioè i seminaristi, che qui venivano a fare la loro passeggiata accompagnati dagli assistenti e talvolta erano soggetti ai lazzi che impertinenti ragazzi in borghese organizzavano ai loro danni.

La domenica si potevano vedere invece in fila le orfanelle del boccone del povero che speravano nella carità di qualche dama per gustare almeno in quel giorno di festa un cono o una pasta.

Per molti giovani c’era invece il bigliardo del Caffè della Vittoria, che costituiva quasi una sorta di quartiere generale dove si trascorrevano pomeriggi interi parlando della squadra di calcio, dei professori terribili, delle avventure d’amore iniziate magari con un incontro al viale e conclusasi talvolta con qualche “fuitina”.

 

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“La Mennulara” di Simonetta Agnello Hornby

"La Mennulara" di Simonetta Agnello HornbyQuesto romanzo è stato il fortunato esordio per la famosa autrice siciliana Simonetta Agnello Hornby e l’inizio di una lunga serie di successi letterari.

Si presenta fin dalle prime pagine come una storia intrigante e complessa, con allo sfondo una Sicilia divisa tra sentimenti arcaici e la rincorsa alla ricchezza.

Il racconto inizia il 23 settembre 1963, giorno della morte di Rosalia Inzerillo, conosciuta da tutti come la “Mennulara”, per essere stata da giovane una raccoglitrice di mandorle.

La Mennulara, Mennù per la famiglia Alfallipe dove inizia a lavorare come domestica all’età di 13 anni, ma che ben presto, si aggiudica un ruolo ben più importante di quello di semplice cameriera, in quanto, grazie alla sua brillante intelligenza, diventa l’amministratrice di tutti i beni della famiglia, salvandola da un sicuro fallimento dovuto alla disorganizzazione amministrativa del capo famiglia, Orazio.

Senza di lei, Orazio Alfallipe avrebbe dissipato proprietà e rendite.

Senza di lei, Adriana Alfallipe, alla morte del marito, sarebbe rimasta sola in un palazzo enorme e senza di lei, i loro figli, Gianni, Lilla e Carmela, sarebbero cresciuti senza futuro.

Pur essendo semi analfabeta, leggendo e scrivendo in modo incerto, era comunque estremamente abile nei conti. Per questo diventa per una presenza fondamentale per la famiglia Alfallipe sia dal punto di vista affettivo, amata e odiata in misura diversa da ciascuno dei componenti della famiglia, che da quello economico: la sua abilità nel gestire i beni della famiglia, consente loro di vivere nell’agiatezza, senza preoccupazioni economiche ma anche senza il minimo sentimento di riconoscenza per il suo operato, tanto che al suo funerale, gli stessi proveranno non solo un senso di sollievo, ma scateneranno una “caccia al testamento” per riuscire ad accaparrarsi le misteriose ricchezze della defunta.

La vita della Mennulara che fin dalla prima giovinezza è stata segnata da eventi drammatici come la morte del padre, la responsabilità di mantenere la sorellina e la madre malate di tubercolosi e la violenza carnale subìta e che solo grazie all’intelligenza e al suo temperamento tenace ed inflessibile, era riuscita a trasformarli in eventi a lei vantaggiosi, circondandosi da una corazza di austera freddezza e incutendo a tutti timore e rispetto reverenziale, fa della sua storia il fulcro attorno al quale si sviluppa l’intero romanzo e la vita di un paese di provincia, Roccacolomba, dove tutti parlano (e sparlano) di lei, favoleggiando sulla ricchezza che avrebbe accumulato in modo quasi misterioso, forse addirittura grazie a dei poco chiari legami con un mafioso.

Tutti ne parlano perché sanno e non sanno, perché c’è chi la odia e la maledice e chi la ricorda con gratitudine, perché di bene, la Mennulara ne ha fatto, anche se i suoi modi selvatici e la sua scontrosità non la rendono popolare, anzi “Selvaggia era e selvaggia rimase: se uno le faceva una domanda trasaliva tutta, rispondeva grugnendo, lanciava certe occhiate come un cane pronto a difendersi, aveva gli occhi neri come carboni accesi che volevano bruciare chi le rivolgeva la parola.

Così la descrivono in paese e proprio attraverso gli abitanti del paese e i membri della famiglia Alfallipe, il racconto si snoda di capitolo in capitolo in un susseguirsi di colpi di scena che sempre più trasformano la figura della protagonista da carnefice a vittima, spogliandola del suo gelido riserbo e restituendoci un personaggio indimenticabile, vivo e palpitante, oltre a uno spaccato dell’entroterra siciliano, dove le passioni, la violenza, la malattia, le amanti, la vita e la morte ma anche il pettegolezzo che tutto porta e tutto trasforma, impregnano il romanzo di un fascino che avvince il lettore, pagina dopo pagina.

 

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La Tarantella: Origini della Danza Tipica Siciliana

Ritmi accattivanti e solari, tamburelli, costumi dai colori vivaci e sorrisi: la tarantella è la danza-simbolo del Sud Italia.

Le sue origini attraversano la storia della nostra cultura, a cominciare dalle nostre origini greco-romane, con Gneo Nevio, che scrisse la “Tarentilla”, una commedia latina di ispirazione greca, che ha come protagonista una bella ragazza di Taranto, città che, all’epoca era conosciuta come Tarentum.

Il nome “tarantella” deriva da “taranta”, termine che indicava la tarantola o Lycosa tarentula, un ragno velenoso. Per i nostri avi, danzavano la taranta coloro che erano stati morsi da un ragno.

Si danzava nelle feste pubbliche pagane, e poi, con l’avvento del medioevo, il ritmo frenetico della danza venne giustificato come pratica di guarigione, una sorta di esorcismo per scacciare i demoni, rappresentati simbolicamente dal veleno del ragno.

La tarantella rappresenta una parte importante della cultura contadina, arcaica ed è ostinatamente legata alle favole e ai riti della terra e degli astri.

Con il passare del tempo, la tarantella, lentamente, si modifica tramandandosi oralmente di generazione in generazione, e si evolve nella sua funzione ora di ballo collettivo o di coppia, ora di processione nelle feste rituali, ora di ritmo e di forma musicale e poetica di serenate portate alla finestra dell’innamorata.

È questo il nucleo vitale della musica popolare, che riproduce, con l’urto viscerale del ritmo e della percussione, l’esplosione dei sensi e dei sentimenti.

La danza della tarantella racconta un meridione ricco di valori e di storia, lontano dai clamori delle corti, capace di stimolare in ogni individuo un forte senso di appartenenza.

Bisognerà attendere i grandi coreografi di fine Ottocento per vedere sul palcoscenico di un teatro la danza della tarantella, che, nell’immaginario collettivo, è, per antonomasia, un’esclusiva napoletana.

Questo luogo comune nasce dai grandi balletti classici, dai Ballets Russes di Serge Diaghilev, come il Lago dei Cigni e lo Schiaccianoci di Tchaikovsky o la Boutique Fantastica di Rossini, nei quali compare sempre una tarantella, una danza che rende onore all’Italia, considerata , in questi balletti, come terra mitologica e lontana, luogo di gioie e spensieratezza, come appare nell’Infiorata a Genzano, un balletto creato dal coreografo danese August Bournonville , ispirato dall’omonima manifestazione popolare, sulla scia dell’entusiasmo dei danesi per tutto quello che riguardava l’Italia.

Nel XIX sec. la tarantella è divenuta uno degli emblemi più noti del Regno delle Due Sicilie ed il suo nome ha sostituito i nomi di balli diversi preesistenti di varie zone dell’Italia meridionale, diventando così la danza italiana più nota all’estero.

La diffusione di moda del termine spiega il fatto che oggi varie tipologie di balli popolari e musiche da ballo recano il nome di “tarantella”.

Ancora oggi la tarantella rimane un incontaminato tesoro poetico ed espressivo, e lega insieme le espressioni di regioni diverse dell’Italia.

 

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