La Sicilia è una terra dall’immenso patrimonio storico e culturale dovuto, in modo particolare, agli influssi delle popolazioni straniere che l’hanno conquistata e colonizzata.
Per questo il siciliano è una lingua che si è trasformata e ha assorbito molte parole provenienti dai conquistatori.
Comunemente parliamo di dialetto siciliano, in realtà l’Unesco ha stabilito che il siciliano non è un dialetto bensì una lingua madre, anche se già alcuni filologi di fama internazionale avevano descritto la parlata dell’isola come abbastanza distinta dall’italiano tipico tanto da potere essere considerata un idioma separato; ciò è evidente da un attento studio della fonologia, della morfologia, della sintassi e, nello specifico, del lessico.
Quando si parla di influenze della lingua spagnola si deve intendere l’eredità linguistica lasciata in Sicilia dalle diverse genti iberiche, quindi aragonesi, castigliani e catalani.
L’influenza della lingua spagnola cominciò quando una rivolta popolare, conosciuta come i Vespri siciliani del 1282, cacciò il francese Carlo d’Angiò, ma la Sicilia rimase comunque in balia di uno straniero, Pietro d’Aragona, che aveva appoggiato la rivolta e i rivoltosi. Dopo una lotta tra Angioini e Aragonesi per ottenere il potere nell’isola, con la Pace di Caltabellotta nel 1302 la Sicilia fu assegnata agli Aragonesi. Nel 1479 l’isola fu dichiarata vicereame spagnolo e rimase alla Spagna fino al 1712, quando passò sotto il dominio dei Savoia.
Quindi gli Spagnoli Borboni occuparono la Sicilia per 500 anni e le loro espressioni si fusero con la lingua locale. Durante questo periodo, la lingua siciliana riuscì a godere di ufficialità e prestigio. Fin quando il Re di Spagna Alfonso V° unì la Sicilia e Napoli, introducendo come lingua il Castigliano.
Dunque l’influenza della lingua spagnola sul siciliano è stata di tale portata che ancora oggi vi sono espressioni e termini di origine spagnola usati dai siciliani nella loro quotidianità.
L’influenza delle lingue iberiche sulla parlata dell’isola è evidente, ad esempio, nelle terminazioni verbali dell’imperfetto (-ìa, come in dicìa, facìa) e del condizionale (-ìa, es.: dirìa, farìa), nell’uso di sostituire il condizionale dell’apòdosi nel periodo ipotetico, sia di secondo che di terzo tipo, col congiuntivo passato o trapassato, come nell’espressione: “Si me hubiera llamado, no hubiera ido” in castigliano; “Si m’avissiru chiamatu, nun cc’avissi jutu” in siciliano. Altra regola grammaticale comune è quella dell’uso nel complemento oggetto della preposizione “a” con nomi propri o comuni di persone, per esempio: “Esperamos a tu hermano” in castigliano, “Aspittamu a tò frati” in siciliano.
Si tratta di costruzioni sintattiche spesso scambiate per errori dovuti all’ignoranza.
Dal castigliano derivano numerose perifrastiche; in particolare vi è la costruzione “havi” + complemento di tempo + “ca” + verbo (es.: “Havi dui anni ca nun niscèmu nzèmmula” in siciliano, “Hace dos años que no salimos juntos” in castigliano); e la costruzione del verbo “aviri” + “a” + infinito (es.: “Tengo que ir” in castigliano, “Haju a jiri” in siciliano). Infine, sopravvivono ancora esclamazioni come “Vàja!”. Dal catalano proviene il verbo “dunari” (“donar”) e il pronome relativo e congiunzione “ca” derivante da “que”.
Ecco un elenco di parole usate in Sicilia di derivazione spagnola:
curtigghiu (cortile) da cortijo; lastima (lamento) da làstima; pignata (pentola) da pinàda; cucchiara (cucchiaio) da cuchara; cascia (cassa) da caixa, scupetta (lupara) da escopeta; manta (coperta) da manta; zita (fidanzata) da cita; anciova (acciuga) da anxova; tiempu (tempo) da tiempo; vientu (vento) da viento; chianu (piano) da llano; chiavi (chiave) da llave; fastuchi (pistacchi) da festuc; muccaturi (fazzoletto) da mocador; chiamari (chiamare) da llamar; accabbari (concludere) da acabar; acciaffari (schiacciare) da aixafar; abbuccari (cadere) da abocar; accupari (soffocare dal caldo) da acubar; addunarisi (accorgersi) da adonar-se; affruntàrisi (vergognarsi) da afrontar-se; capuliari (tritare) da capolar; priàrisi (rallegrarsi) da prear-se; sgarrari (sbagliare) da esgarrar; nzittari (indovinare) da encertar; etc.

Denise Inguanta gestisce il blog “Lettera D”. Il mondo della comunicazione è il suo regno: infatti, oltre ad essere una copywriter, è conduttrice televisiva e radiofonica e redattrice in diverse testate giornalistiche.
Complimenti “senza riserva alcuna” per
le sue fruttuose ricerche, che sono anche la mia passione quotidiana.
Da siciliano del sud-est, ho anche riscontrato che il nostro “taliari” deriva dallo spagnolo “atalajar”, (=guardare, dare un’occhiata). Troviamo in un vocabolario cosa sia stata la atalaja e l’atalajero e capiremo perchè usiamo dire che “iu taliài, ma nun visti “. Taliari è meno che “individuare”, che è appunto il “vedere”. “notare”.
Da noi l’idraulico è chiamato “funtanieri” che richiama il “fontanero” spagnolo. Nel passato parlavamo di
“fuitìna”, attingendo forse dalla “huidina” spagnola, mentre dalle mie parti “aieri” (=ieri) sembra essere la copia del ” ayer” ispanico; nel siculo/messinese il pronome “yo” (=io)
corrisponde allo identico uo spagnolo.
…. Da molto tempo cerco etimi per tutte le parole siciliane e Le assicuro che è
magari faticoso, mi appassiona e dà soddisfazione. Sapesse quanto greco sopravvive nel nostro lessico! E quanto latino, arabo, francese, germanico, ed anche un bel po’ di ebraico.
Andiamo in giro in tutta la Sicilia per visitare le vestigia del passato e non sappiamo quanti “beni immateriali” (quali sono le nostre parole e i modi di dire) abbiamo da scoprire e godere al
solo pronunciare il nostro linguaggio!!!
Voglia scusarmi se mi sono dilungato, lasciandomi “prendere la mano” dalla
passione per un argomento che mi
è congeniale. Sono certo che Lei è dalla mia parte, …. e saprà comprendermi.
Un saluto amichevole, con stima e simpatia.
La ringrazio e ricambio affettuosamente il saluto 🙂