“Le Vergini Delle Rocce” di D’annunzio, Il Libro Che Ispirò La Festa Del Mandorlo In Fiore

L’idea di realizzare una manifestazione che, attraverso l’eccezionale raro fenomeno della precoce fioritura dei mandorli, esaltasse la primavera agrigentina fornendo così un indiretto ma significativo contributo per il lancio e la commercializzazione di alcuni prodotti agricoli tipici siciliani nacque un pomeriggio d’inverno del 1934 in una saletta dell’Hotel des Temples, un insediamento ricettivo di prim’ordine sorto dalla ristrutturazione di una villa intorno al 1882 e frequentato da una selezionata clientela internazionale anche perché solidamente inserito in un qualificato circuito isolano di escursioni (Palermo, Agrigento, Siracusa e Taormina).

Attorno ad un caffè si erano incontrati il dottor Alfonso Gaetani conte d’Osero, passato alla storia come ideatore della Sagra, e l’ambasciatore di Francia a Roma, conte Charles De Chambrun, che, quando gli impegni erano meno pressanti, raggiungeva volentieri la Sicilia delle cui bellezze si dichiarava ammirato sostenitore.

Fra i due, non si sa come, la conversazione era improvvisamente scivolata sul poeta e scrittore Gabriele D’Annunzio, per cui l’ambasciatore, incantato dalla natura agrigentina, aveva confidato di essere rimasto colpito un giorno da alcune descrizioni colte nella lettura di un testo dello scrittore pescarese dal titolo “Le vergini delle rocce”.

Nel libro scritto da D’Annunzio nel 1895 ci sono alcuni riferimenti geografici alla Sicilia e al territorio che lo fa singolarmente somigliare a quello agrigentino.

 

L’autore descrive un centro abitato di nome Trigento con una vallata sottostante limitata in fondo dal mare dove fioriscono filari di mandorli le cui piante di aspetto arido e tormentato sono datrici di un frutto opulento. Che Trigento fosse allora Agrigento?

 

Questa fu la domanda che si posero i due interlocutori.

E così, mentre il diplomatico francese rifletteva sulla bellezza di quel paesaggio meravigliosamente descritto da D’Annunzio, il conte Gaetani partorì l’idea di celebrare il rito spontaneo dei mandorli in fiore con una festa aperta a tutti, la Festa del Mandorlo in Fiore appunto.

Composto nel 1894 e pubblicato a puntate sulla rivista “Il Convito”, “Le vergini delle rocce” fu edito in volume nel 1896. Il titolo allude a un famoso quadro di Leonardo conservato al Louvre.

Il romanzo rappresentò una svolta importante, non tanto per la resa poetica, inferiore a quella dei romanzi precedenti, quanto per la testimonianza che offre sia dell’evoluzione spirituale e culturale dello scrittore, sia di una nuova disposizione narrativa.

Il protagonista del romanzo è Claudio Cantelmo, che vorrebbe un figlio per farne un nuovo Re di Roma, un superuomo quindi, e cerca invano una moglie fra le tre figlie dei Capece – Montagna, famiglia borbonica tra le più illustri e magnifiche delle due Sicilie, che vive ritirata nei suoi feudi, nell’antico castello di Trigento (Agrigento, appunto?); ma è difficile scegliere fra le tre belle principesse variamente seducenti e attraenti che vivono sullo sfondo di magnifici e suggestivi scenari naturali.

Cantelmo, assertore della dottrina del «superuomo», convinto che solo la classe aristocratica ha il diritto e la possibilità di governare, disgustato dalla realtà politica contemporanea, dominata, a suo parere, da demagogia e corruzione, sostiene che i nobili devono tenersi lontani dalla lotta politica finché non verrà il giorno in cui il popolo, oppresso dal disordine e dalla miseria, offrirà ad uno di loro la corona regale; ecco che il protagonista vorrebbe procreare il futuro sovrano.

In questo romanzo, dall’intreccio debole, la dottrina del superuomo diventa misura di giudizio etico – politico sulla società contemporanea e il portante strutturale di un idoleggiamento di creature belle, di paesaggi stupendi, tra cui quelli di Trigento che ispirarono la Festa del Mandorlo in Fiore, di scene voluttuose e seducenti, al di là di ogni preoccupazione morale o psicologica.

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La sicilianità nella musica contemporanea

Negli anni si sono susseguiti nuovi cambi generazionali che hanno sempre mantenuto il rispetto per la musica tradizionale siciliana riproponendola in nuove versioni come Roy Paci con “Malarazza”, uno dei successi di Modugno.

Siciliani di eccellenza sono anche i “grandi nuovi” che mantengono la tradizione del bel canto come Franco Battiato e la sua delicatissima “Stranizza d’amuri”, un giro armonico sulle note dell’eneagramma o la famosa cantantessa Carmen Consoli con “Focu de raggia” (feat Goran Bregovic) a ricordo anche delle nostre miste origini.

Richiamati quelli che sono i grandi ambasciatori della Sicilia e della sua evoluzione c’è da dire che di gruppi siciliani minori ve ne sono molti, quasi tutti giovani e di ogni parte della Sicilia.

 

Non si possono citare tutti ma la nostra playlist personale ne prevede 5 che si caratterizzano per testi e sonorità particolarmente legati a questa nostra terra.

Questi gruppi sono spesso accusati di non riuscire a “sfondare” per l’eccessivo legame alla Sicilia, che li rende poco nazionali, ma loro non demordono, perché è da questa terra che traggono l’ispirazione.

 

Impossibile non citare Ipercussonici, band catanese fondata nel 2002 dall’incontro di musicisti influenzati anche da esperienze in Africa e Oceania.

Le loro sonorità sono molto miste e prevale fra i diversi strumenti il marranzano, con le quali si ottengono dei suoni elettronici pari a quelli dei sintetizzatori.

Tanti sono i loro successi che li hanno portati in giro in tournée internazionali citiamo “Quannu moru, faciti ca nun moru”, una canzone di denuncia contro la mafia dedicata a Rosa Balistreri.

I Kunsertu, fondati a Messina nel 1989, famosi a livello italiano, con una musica che è sapiente unione della Sicilia e del Maghreb, ma con influssi provenienti da tutta l’Africa.

I testi affrontano spesso tematiche legate all’attualità, dalle stragi nei campi profughi palestinesi al dramma dell’immigrazione, senza dimenticare la natura romantica che li ha portati al successo con la loro “Mokarta”.

Tornado alla vera tradizione ci preme citare i Mas-Nada e I Beddi.

I primi si formano nel 1994 a Modica e compongono in siciliano con un percorso di ricerca, facendo loro le tradizioni sia del loro luogo natio che della Sicilia in generale, mischiando la loro musica con il vicino Nord Africa.

Fra i loro brani “Chistu nunn’è u pararìsu”, è la storia dell’incanto del mondo visto con gli occhi di un bambino e della sua disillusione sul mondo.

I Beddi, nome completo “I Beddi musicanti di Sicilia”, invece sono un gruppo del catanese che vede la nascita del loro esistere nel 2010, e appartiene a quel genere musicale completamente rinnovato del Siciliy Unconventional Folk; il folk de I Beddi è infatti contaminato oltre che da musiche di altre regioni del mondo anche da generi musicali moderni.

Fra i diversi successi vi facciamo ascoltare “L’Armata dei Pupi Siciliani” un riassunto della storia siciliana contemporanea che parla della voglia di non essere pupi e marionette, ma rivoluzionari.

Una menzione speciale va a Lello Analfino e ai Tinturia, gruppo agrigentino nato musicalmente nel 1999, raggiunge la consacrazione con l’interpretazione della colonna sonora di un famoso film di Ficarra e Picone “Andiamo a quel paese”, che con la sua “Cocciu d’amuri” ha raggiunto in 3 giorni un pubblico stimato in oltre 3 milioni di persone.

Resta indimenticabile anche la sua interpretazione di “Nicuzza”, dell’autore di Franco Finistrella, che la dedicò a sua moglie.

Dura a morire è dunque la voglia di parlare di Sicilia per i suoi cantautori e musicisti, e come del resto non farsi incantare e trarre ispirazione, seppur in questo rapporto di odio e amore, per questa terra?

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“La Mennulara” di Simonetta Agnello Hornby

"La Mennulara" di Simonetta Agnello HornbyQuesto romanzo è stato il fortunato esordio per la famosa autrice siciliana Simonetta Agnello Hornby e l’inizio di una lunga serie di successi letterari.

Si presenta fin dalle prime pagine come una storia intrigante e complessa, con allo sfondo una Sicilia divisa tra sentimenti arcaici e la rincorsa alla ricchezza.

Il racconto inizia il 23 settembre 1963, giorno della morte di Rosalia Inzerillo, conosciuta da tutti come la “Mennulara”, per essere stata da giovane una raccoglitrice di mandorle.

La Mennulara, Mennù per la famiglia Alfallipe dove inizia a lavorare come domestica all’età di 13 anni, ma che ben presto, si aggiudica un ruolo ben più importante di quello di semplice cameriera, in quanto, grazie alla sua brillante intelligenza, diventa l’amministratrice di tutti i beni della famiglia, salvandola da un sicuro fallimento dovuto alla disorganizzazione amministrativa del capo famiglia, Orazio.

Senza di lei, Orazio Alfallipe avrebbe dissipato proprietà e rendite.

Senza di lei, Adriana Alfallipe, alla morte del marito, sarebbe rimasta sola in un palazzo enorme e senza di lei, i loro figli, Gianni, Lilla e Carmela, sarebbero cresciuti senza futuro.

Pur essendo semi analfabeta, leggendo e scrivendo in modo incerto, era comunque estremamente abile nei conti. Per questo diventa per una presenza fondamentale per la famiglia Alfallipe sia dal punto di vista affettivo, amata e odiata in misura diversa da ciascuno dei componenti della famiglia, che da quello economico: la sua abilità nel gestire i beni della famiglia, consente loro di vivere nell’agiatezza, senza preoccupazioni economiche ma anche senza il minimo sentimento di riconoscenza per il suo operato, tanto che al suo funerale, gli stessi proveranno non solo un senso di sollievo, ma scateneranno una “caccia al testamento” per riuscire ad accaparrarsi le misteriose ricchezze della defunta.

La vita della Mennulara che fin dalla prima giovinezza è stata segnata da eventi drammatici come la morte del padre, la responsabilità di mantenere la sorellina e la madre malate di tubercolosi e la violenza carnale subìta e che solo grazie all’intelligenza e al suo temperamento tenace ed inflessibile, era riuscita a trasformarli in eventi a lei vantaggiosi, circondandosi da una corazza di austera freddezza e incutendo a tutti timore e rispetto reverenziale, fa della sua storia il fulcro attorno al quale si sviluppa l’intero romanzo e la vita di un paese di provincia, Roccacolomba, dove tutti parlano (e sparlano) di lei, favoleggiando sulla ricchezza che avrebbe accumulato in modo quasi misterioso, forse addirittura grazie a dei poco chiari legami con un mafioso.

Tutti ne parlano perché sanno e non sanno, perché c’è chi la odia e la maledice e chi la ricorda con gratitudine, perché di bene, la Mennulara ne ha fatto, anche se i suoi modi selvatici e la sua scontrosità non la rendono popolare, anzi “Selvaggia era e selvaggia rimase: se uno le faceva una domanda trasaliva tutta, rispondeva grugnendo, lanciava certe occhiate come un cane pronto a difendersi, aveva gli occhi neri come carboni accesi che volevano bruciare chi le rivolgeva la parola.

Così la descrivono in paese e proprio attraverso gli abitanti del paese e i membri della famiglia Alfallipe, il racconto si snoda di capitolo in capitolo in un susseguirsi di colpi di scena che sempre più trasformano la figura della protagonista da carnefice a vittima, spogliandola del suo gelido riserbo e restituendoci un personaggio indimenticabile, vivo e palpitante, oltre a uno spaccato dell’entroterra siciliano, dove le passioni, la violenza, la malattia, le amanti, la vita e la morte ma anche il pettegolezzo che tutto porta e tutto trasforma, impregnano il romanzo di un fascino che avvince il lettore, pagina dopo pagina.

 

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