Candele, crespelle e purificazione: La Candelora

fiaccolata sagra del mandorlo in fiore agrigento

Si ‘un chiovi ‘a cannilòra ‘u ‘nvernu è sciutu fora“, e così che ogni 2 febbraio aprendo le finestre di casa le signore anziane diventavano le nostre metereologhe e facevano previsioni su future piogge e raccolta delle messi.

Noto è che ad Agrigento la Sagra del Mandorlo in Fiore veniva prima celebrata i primi di febbraio, probabilmente conseguentemente a questa festa che nelle celebrazioni pre-cristiane era la festa di Imbolc che segnava, appunto, il lento arrivo della primavera che scacciava l’inverno, che proprio in questi momenti lasciava le genti allo stremo per la scarsità delle risorse e delle provviste che cominciavano a scarseggiare.

Questa festa era celebrata con l’accensione delle candele per determinare la purificazione del terreno dall’inverno e scacciare i suoi demoni, e resta tradotta nella religione cattolica con la purificazione di Maria Vergine e la presentazione di Gesù al tempio.

Febbraio è anche il mese che vede i festeggiamenti della dea Februa (Giunone, la quale, nel mondo romano, veniva celebrata con l’accensione delle candele ed infatti era anche chiamata Lucina, cioè dea della luce.

Non dimentichiamo che Giunone era protettrice delle partorienti e forse anche per questo le religioni moderne festeggiano il 2 febbraio come festa della purificazione dopo il parto.

Secondo i giudei infatti, una donna che aveva partorito era impura per 40 giorni del sangue mestruale e doveva recarsi al tempio ad accendere una candela per la purificazione al 40° giorno dal parto, e così fece anche Maria dopo la nascita di Gesù.

Le candele accese sono anche ricondotte alle parole di Simenone, che quando vide Gesù lo definì dicendo “luce per illuminare le genti, per questo motivo il simbolo della candela benedetta diviene per i credenti simbolo stesso della vicinanza a Gesù.

La tradizione culinaria, invece, fa delle crepes o crespelle il piatto della Candelora, in diversi gusti cucinate tenendo in mano una moneta, sono di buon’auspicio per festeggiare questo periodo che comincia a profumare di primavera.

Quindi occhio alla finestra oggi per il meteo futuro e buone crespelle a tutti, illuminati da una bella candela!

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Il costruttore di Pupi di Agrigento: Carmelo Guarneri

Collezione Carmelo Guarneri puparo ad Agrigento

Nonostante il teatro dell’opera dei pupi fonda le sue origini ottocentesche nelle due maggiori città dell’isola, Catania e Palermo, anche Agrigento vanta il prestigio di questa tradizione nel maestro d’arte Carmelo Guarneri, che ha cercato di imparare autonomamente la costruzione dei pupi siciliani.

Carmelo Guarneri Mastro Puparo
Il Maestro Guarneri non rinuncia alla tecnologia per creare i suoi capolavori.

Carmelo Guarneri, che espone già da anni la sua collezione nella sala del piano terra della Pinacoteca dell’Ex Collegio dei Filippini, spiega come questa “arte”, che abbraccia da secoli l’area occidentale e orientale della Sicilia, sia arrivata a influenzare la sua professione artistica.

Il maestro agrigentino originario del quartiere storico Bac Bac, fin da piccolo denota una particolare inclinazione per il disegno e la pittura, che coltiva per anni come autodidatta. Frutto delle sue origini nel quartiere storico di Agrigento, è la numerosa collezione dei dipinti nella quale testimonia gli scorci della sua infanzia tra passato e il presente, rivelando le trasformazioni che hanno subito quei luoghi dopo le vicende storiche della frana del ’66.

Affascinato dai grandi poemi epico cavallereschi (Orlando Furioso, Orlando Innamorato e il Morgante), e dalle gesta di Carlo Magno e dei suoi Paladini che il Guarneri comincia l’ideazione e la costruzione dei pupi siciliani.

Racconta come all’inizio della sua professione sceglie il prototipo del pupo catanese presto abbandonato per quello palermitano che diventerà fin dall’inizio della sua carriera artistica il modello di riferimento per la realizzazione dei pupi.

Afferma << Infatti mi sono accorto che la gamba era troppo tesa. Non mi piaceva! Il pupo palermitano ha la gamba che si piega, e si presta meglio ai movimenti >>

combattimento tra pupi ad agrigento
Improvvisazione di una scena effettuata dal Maestro e da suo figlio.

Difatti una delle differenze tra i pupi palermitani e catenesi sta proprio nelle flessibilità delle gambe che permettono ai pupi palermitani di avere una maggiore articolazione del movimento e potersi inginocchiare, aspetto tecnico non riscontrabile nei pupi catanesi che oltre a differenziarsi per l’imponente altezza sono meno dinamici e pertanto il manovratore sta in una posizione rialzata rispetto alla scena.

Il Maestro Carmelo Guarneri, rivela come lui non sia un oprante, e umilmente racconta come la sua arte non gli sia stata trasmessa da nessuno, né da un maestro né dal padre, l’unico aiuto che riceve è dalla nuora, abile ricamatrice degli abiti dei suoi pupi.

La costruzione dei pupi, analogamente a quanto avviene communente, si presta fedelmente alle descrizioni tecniche studiate da Antonio Pasqualino (1980) e Giuseppe Aiello (2011).

pupi guarneri in costruzione
Un esempio di pupi in lavorazione.

Il corpo delle marionette è costruito dall’artista con legno di faggio e si compone del busto, degli arti inferiori, realizzati in tre pezzi assemblati, e dagli arti superiori costituiti dai soli avambracci collegati alla spalla. Le teste sono scolpite in legno di cipresso e dipinte con colori a olio.

L’aspetto più difficile è la realizzazione delle armature, tecnica distintiva della pratica artigianale del costruttore delle marionette.

L’origine delle decorazioni delle armature s’ispirava, nella storia dell’opera dei pupi, alle prime xilografie dei poemi cavallereschi del Cinquecento e alla stampa popolare seicentesca, ma con il tempo si registrarono innumerevoli innovazioni tecniche artigianali.

Una parte della collezione Guarneri ad Agrigento
Una parte della collezione Guarneri ad Agrigento.

Il gusto estetico dell’armatura dei pupi del maestro agrigentino si presta, infatti, ai modelli più recenti dei pupi palermitani: le decorazioni di rrabbischi (arabeschi), borchie (bottoni) e losanghe saldate a sbalzo agli scudi e alle armature sono di un rame di colore diverso.

A fare da cornice a ogni marionetta sono le grandi tele realizzate dal Maestro che raccontano la pazzia dell’Orlando Furioso, il rapimento di Angelica, e altre vicende tratte dai poemi cavallereschi. Saraceni e paladini figurano in piccole tavole a olio, riprendendo i modelli delle sponde dei carretti siciliani.

La sua arte che onora una grande tradizione siciliana, non poteva mancare nella città di Pirandello che scriveva:

‘Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo.
Pupo io, pupo lei, pupi tutti.

E’ possibile visitare la collezione del Maestro Guarneri recandosi in Via Atenea, ad Agrigento; il suo recapito telefonico è +393341768941.

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Il racconto nel canto: la Sicilia del popolo

tamburello siciliano ad agrigento

Chi non ha mai intonato “Ciuri ciuri” si morda la lingua, chi non ha mai battuto le mani al ritmo di “Vitti na crozza” si faccia avanti e chi non ha mai sorriso ascoltando “La luna in mezzu u mari” scagli la prima pietra: questa musica è di tutti e rappresenta le origini e l’ancestrale grembo di questa isola e dei suoi isolani.

La Sicilia è una terra sonora, dove ogni luogo ha un suo rumore, tramandato da secoli di invasione che hanno dato note diverse e diverse infiltrazioni a un popolo notoriamente rumoroso.

Comunemente a ciò che è la musica, anche in questa isola così multi variegata, spesso la si usa per esprimersi: in primis fu nel lutto, poi i canti dei lavoratori e in particolare degli zolfatari, ed a seguire per tramandare storie affinando melodie e nenie accompagnate da strumenti in uso ancora oggi come il marranzano, il tamburello e lo zufolo.

Per capire l’importanza che riveste il canto e la musica popolare possiamo ricorrere alle parole scritte dal scritte dal filosofo, teologo e letterato tedesco, Johann Gottfried Herder (1744-1803), “I canti popolari sono gli archivi del popolo, il tesoro della sua scienza, della sua religione […] della vita dei suoi padri, de’ fasti della sua storia…”

Una storia che si tramanda quindi con i suoi costumi e i suoi principali mestieri e abitudine quotidiane come ad esempio il famoso canto dei pescatori “Jetta la riti”, o “U cantu di lu carritteri” o ancora “Passa u ricuttaru”. Questi brani che in taluni casi sono antichi vengono in gran parte interpretati da Gian Campione, cantautore agrigentino del ’46 che ha portato la musica popolare siciliana in tutto il mondo.

Usata per condividere storie, culti ed emozioni la musica siciliana odierna non smette di essere canto di amore, spesso anche di denuncia, verso persone e soprattutto nei confronti della Sicilia stessa, perché un isolano ha un profondo senso di attaccamento alla terra, viscerale e sentimentale come un canto d’amore sa essere, anche quando non corrisposto.

Quindi a volte il canto può essere di una dolcezza commovente e altre di una violenta passione.

Di questo genere di musica non si può non ricordare la più famosa interprete che è Rosa Balistreri, che appunto diceva in merito al suo modo di fare musica: “Si può fare politica e protestare in mille modi, io canto. Ma non sono una cantante.. sono diversa, diciamo che sono un’attivista che fa comizi con la chitarra”.

Una donna forte, che cantava per sfogare la sua rabbia. Il timbro forte ed originale della voce le consentì in seguito di interpretare le canzoni popolari siciliane con un tono fortemente drammatico esprimendo il senso di povertà e orgoglio della sua terra. Un esempio è la sua meravigliosa “Terra ca nun senti”.

“Rosetta a licatisa” (nome d’arte all’inizio della sua carriera) era anche una donna, e in quanto tale romantica, e forse la sua più famosa canzone è appunto “Cu ti lu dissi”.

Nessun siciliano resta fermo o non mostra emozione davanti alle sonorità che abbiamo raccontato qui sopra, dalla prima all’ultima fanno parte della tradizione, della appartenenza e dell’ancestrale natura di ogni isolano, scorrono nel sangue e aspettano solo una nota che li riporti alla luce facendoli risuonare.

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Opera Dei Pupi: Un Patrimonio Presente Anche Ad Agrigento

opera dei pupi catania

(Immagine Di Lucarelli - Opera propria, CC BY-SA 3.0, Collegamento)

L’Opera dei Pupi rappresenta senza dubbio parte integrante dell’identità culturale siciliana.

Essa, chiamata “Opira dei Pupi” in siciliano, è un tipo di teatro di marionette in cui si rievocano le gesta epiche riguardanti i combattimenti tra i paladini di Carlo Magno, impegnati a difendere la fede cristiana, e gli infedeli saraceni.

Vengono così rappresentati anche tradimenti, tristi storie d’amore, apparizioni miracolose e demoniache o di animali feroci.

In particolare, l’Opera dei Pupi siciliani ha due dimensioni particolari: quella del racconto orale che i cantastorie facevano nelle piazze e quella gestuale della danza con le spade che, oltre a rappresentare i combattimenti, indicavano nella cultura contadina i riti di fertilità.

L’Opera dei Pupi si basa su un repertorio, risalente al ciclo carolingio della Chansons de Geste, che veniva trasmesso oralmente da maestro ad apprendista.

L’origine del teatro dei pupi è molto controversa. Di sicuro si sa che nella prima metà dell’Ottocento gli etnografi studiavano dei pupi che indossavano armature molto rudimentali.

Ma già alcuni studiosi del Settecento ritenevano che l’abilità dei pupari discendesse dalla capacità di costruire e far muovere marionette di alcuni siracusani attivi al tempo di Socrate e Senofonte.

In Sicilia esistono due distinte tradizioni dell’Opera dei Pupi: quella palermitana, diffusa nella Sicilia occidentale e molto viva grazie all’associazione Figli d’Arte Cuticchio, e quella catanese, diffusa nella Sicilia orientale e in Calabria.

I pupi, decorati in maniera molto ricca, presentavano una struttura in legno e avevano delle corazze; inoltre variavano nei movimenti a seconda della scuola di appartenenza palermitana o catanese.

La differenza più evidente stava nelle articolazioni: infatti i primi erano più leggeri e snodabili, mentre i secondi erano più pesanti e con gli arti fissi.

Lo spettacolo veniva curato dal puparo, che si occupava anche delle sceneggiature.

Così adottava un timbro di voce particolare a seconda del pupo che manovrava e delle scene epiche rappresentate.

I pupari, nonostante fossero molto spesso analfabeti, conoscevano a memoria opere come la Chanson de Roland, la Gerusalemme liberata e l’Orlando furioso.

I pupi erano diversi e si caratterizzavano per le corazze e i mantelli differenti poiché ogni marionetta rappresentava tipicamente un preciso paladino.

Questa forma di teatro delle marionette è stata proclamata dall’UNESCO “Capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità”.

Agrigento ospita una mostra permanente sull’Opera dei Pupi, allestita nei locali di Casa Pace, sita nella collina dei Templi.

La mostra è nata nell’ambito della collaborazione sorta tra il Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento e il Museo Internazionale della Marionette Antonio Pasqualino di Palermo.

Al piano terra del Palazzo dei Filippini, sempre ad Agrigento, si può visitare la preziosa collezione di pupi siciliani realizzati rigorosamente a mano dal maestro Carmelo Guarneri.

Il suo scopo è quello di valorizzare entrambe le espressioni del patrimonio culturale siciliano riconosciute dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità cioè la Valle dei Tempi e l’Opera dei Pupi.

Nella mostra è possibile visitare materiale appartenente alla scuola palermitana e catanese; sono inoltre presenti pannelli esplicativi e supporti audio video.

Anche a Licata, cittadina in provincia di Agrigento, la tradizione dei pupi è tornata a vivere grazie all’impegno della famiglia Profeta costituita da pupari per tradizione che ripresentano copioni e marionette di paladini presso il teatro Re.

Potere assistere ancora oggi all’Opera dei Pupi significa avere la possibilità di provare una gioia per gli occhi e per la mente, oltre ad avere l’occasione di fare un tuffo in un passato magico.

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