Opera Dei Pupi: Un Patrimonio Presente Anche Ad Agrigento

opera dei pupi catania

(Immagine Di Lucarelli - Opera propria, CC BY-SA 3.0, Collegamento)

L’Opera dei Pupi rappresenta senza dubbio parte integrante dell’identità culturale siciliana.

Essa, chiamata “Opira dei Pupi” in siciliano, è un tipo di teatro di marionette in cui si rievocano le gesta epiche riguardanti i combattimenti tra i paladini di Carlo Magno, impegnati a difendere la fede cristiana, e gli infedeli saraceni.

Vengono così rappresentati anche tradimenti, tristi storie d’amore, apparizioni miracolose e demoniache o di animali feroci.

In particolare, l’Opera dei Pupi siciliani ha due dimensioni particolari: quella del racconto orale che i cantastorie facevano nelle piazze e quella gestuale della danza con le spade che, oltre a rappresentare i combattimenti, indicavano nella cultura contadina i riti di fertilità.

L’Opera dei Pupi si basa su un repertorio, risalente al ciclo carolingio della Chansons de Geste, che veniva trasmesso oralmente da maestro ad apprendista.

L’origine del teatro dei pupi è molto controversa. Di sicuro si sa che nella prima metà dell’Ottocento gli etnografi studiavano dei pupi che indossavano armature molto rudimentali.

Ma già alcuni studiosi del Settecento ritenevano che l’abilità dei pupari discendesse dalla capacità di costruire e far muovere marionette di alcuni siracusani attivi al tempo di Socrate e Senofonte.

In Sicilia esistono due distinte tradizioni dell’Opera dei Pupi: quella palermitana, diffusa nella Sicilia occidentale e molto viva grazie all’associazione Figli d’Arte Cuticchio, e quella catanese, diffusa nella Sicilia orientale e in Calabria.

I pupi, decorati in maniera molto ricca, presentavano una struttura in legno e avevano delle corazze; inoltre variavano nei movimenti a seconda della scuola di appartenenza palermitana o catanese.

La differenza più evidente stava nelle articolazioni: infatti i primi erano più leggeri e snodabili, mentre i secondi erano più pesanti e con gli arti fissi.

Lo spettacolo veniva curato dal puparo, che si occupava anche delle sceneggiature.

Così adottava un timbro di voce particolare a seconda del pupo che manovrava e delle scene epiche rappresentate.

I pupari, nonostante fossero molto spesso analfabeti, conoscevano a memoria opere come la Chanson de Roland, la Gerusalemme liberata e l’Orlando furioso.

I pupi erano diversi e si caratterizzavano per le corazze e i mantelli differenti poiché ogni marionetta rappresentava tipicamente un preciso paladino.

Questa forma di teatro delle marionette è stata proclamata dall’UNESCO “Capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità”.

Agrigento ospita una mostra permanente sull’Opera dei Pupi, allestita nei locali di Casa Pace, sita nella collina dei Templi.

La mostra è nata nell’ambito della collaborazione sorta tra il Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento e il Museo Internazionale della Marionette Antonio Pasqualino di Palermo.

Al piano terra del Palazzo dei Filippini, sempre ad Agrigento, si può visitare la preziosa collezione di pupi siciliani realizzati rigorosamente a mano dal maestro Carmelo Guarneri.

Il suo scopo è quello di valorizzare entrambe le espressioni del patrimonio culturale siciliano riconosciute dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità cioè la Valle dei Tempi e l’Opera dei Pupi.

Nella mostra è possibile visitare materiale appartenente alla scuola palermitana e catanese; sono inoltre presenti pannelli esplicativi e supporti audio video.

Anche a Licata, cittadina in provincia di Agrigento, la tradizione dei pupi è tornata a vivere grazie all’impegno della famiglia Profeta costituita da pupari per tradizione che ripresentano copioni e marionette di paladini presso il teatro Re.

Potere assistere ancora oggi all’Opera dei Pupi significa avere la possibilità di provare una gioia per gli occhi e per la mente, oltre ad avere l’occasione di fare un tuffo in un passato magico.

Cubaita Di Mandorle E Giuggiulena Di Sesamo

La “cubaita” o “cubbaita” di mandorle è un dolce tipico della tradizione dolciaria siciliana, le cui origini risalgono ai dominatori saraceni in Sicilia, infatti mandorlato in arabo si dice “qubbiat”.

Ricorda lontanamente un torrone e ne esiste una variante, chiamata “giuggiulena”, il cui ingrediente principale è il sesamo e le cui origini sono sempre arabe.

È possibile preparare anche una versione di cubaita maggiormente arricchita con mandorle e sesamo insieme (che è quella che preferisco in quanto legata ad una cara zia 🙂 ).

Di solito, comunque, questo dolce viene chiamato “cubbaita” nella Sicilia Occidentale e “giuggiulena” nella Sicilia Orientale.

La cubaita è il dolce tipico delle feste, infatti solitamente si prepara per Natale, per la Festa dei Morti e per San Giuseppe.

Ma, in realtà, in Sicilia ogni momento è buono per prepararla e gustarla perché quando in cucina si spande l’odore dello zucchero, del miele e delle mandorle tostate si diffonde già l’aria di festa.

È una delle ricette tipiche siciliane che va assolutamente tramandata.

La tradizione della cubaita è talmente radicata in Sicilia che esiste perfino un proverbio che la riguarda: “scrusciu di carta senza cubbaita” che significa “tutta apparenza e poca sostanza”.

Tempo di preparazione: 5 minuti
Tempo di cottura: 5 minuti
Tempo totale: 10 minuti

Ingredienti

  • 500 grammi di zucchero semolato
  • 100 grammi di acqua
  • 150 grammi di miele
  • 200 grammi di mandorle tostate oppure di sesamo
  • Cannella in polvere
  • Scorza di un’arancia
  • Olio di semi o di mandorle
  • Una confezione di codette o confettini colorati a piacere

 

Preparazione

Mettete in una casseruola a fondo spesso, su fuoco basso, lo zucchero e l’acqua.

Quando lo zucchero si scioglie e diventa dorato, aggiungete il miele, il sesamo o le mandorle, la scorza grattugiata di un’arancia e una spolverata di cannella e fate amalgamare ancora per qualche minuto, a questo punto versate il composto su un piano di marmo, già oliato.

Spalmate il composto, aiutandovi con un coltello o una spatola ben oliata, ad uno spessore di circa un centimetro. Con il coltello oliato praticate dei tagli sulla superficie del composto in modo da formare dei rombi o dei quadrati.

Attendete che la cubaita si raffreddi e si solidifichi.

Aggiungete, a piacere, codette o confettini colorati.

Togliete i pezzetti così ottenuti dal marmo e servite.

Assaporate lentamente per meglio gustare la straordinaria bontà di questo dolce!

Alle origini del viale della vittoria

passeggiata cavour agrigento

Il Viale della Vittoria, o meglio la Passeggiata, come gli Agrigentini familiarmente da sempre chiamano l’unico viale alberato della città, compie un secolo e mezzo.

Il taglio della Rupe Atenea e i riempimenti eseguiti per realizzarlo impegnarono per alcuni anni innanzitutto il sedicesimo reggimento fanteria borbonico di Girgenti a partire dal 1849, dopo che si erano spenti i moti rivoluzionari e grande era la fame di lavoro nel capoluogo.

I lavori erano diretti dall’aiutante di campo di quel reggimento, Diego Sartorio.

Venne innalzato anche il muro che tuttora limita la strada sottostante e nello stesso tempo si procedette alla realizzazione delle opere necessarie per ricavare l’emiciclo che oggi denominiamo Piazza Cavour, perché pochi anni dopo la morte dell’insigne statista vi venne posto un suo marmoreo mezzo busto, che però negli anni Cinquanta è stato tolto poiché i ragazzi, fionda alla mano, prendevano di mira soprattutto il naso.

Lo storico Giuseppe Picone in una guida di Girgenti del 1882 descrive la Passeggiata come “un delizioso terrazzo, cinto da un lato da una ringhiera di ferro, e dall’altro da due lunghe fila di alberi, nel quale si gode il grande spettacolo dei nostri campi, limitati dalla zona del mare, ed ove la folla accorre alle sere estive ad allietarsi delle armonie musicali, che s’intonano in un grande emiciclo “.

Difatti già al tempo dei Borboni le bande militari eseguivano spettacoli almeno una volta la settimana e il pubblico poteva prendere posto anche nei numerosi sedili di marmo posti ai lati della piazza.

Qualche anno dopo, poco più innanzi, rispetto all’emiciclo Cavour, il Viale si arricchiva di una villetta pubblica. Venne costruito infatti il Parco delle Rimembranze, da qualche decennio ribattezzato Villa Bonfiglio.

Qui il 24 giugno 1923, dinanzi a diecimila persone e alla presenza di Sua Altezza Reale Filiberto di Savoia e del ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile, venne inaugurato il monumento di Mario Rutelli che ricorda i 500 agrigentini caduti nella prima guerra mondiale.

Quattro anni dopo apriva i battenti nel Passeggio Cavour, come intanto si cominciò a chiamare il Viale, il Grand Hotel et Agrigentum, oggi sede dell’Intendenza di Finanza, che ebbe tra i suoi illustri ospiti Re Gustavo di Svezia, i Florio e tanta nobiltà siciliana.

Disponeva di ben 120 posti letto e dalla sua terrazza si poteva godere della vista della splendida Valle agrigentina e del mare.

Erano gli anni in cui il Viale era frequentato soprattutto da molti compassati signori con l’ombrello grigio da sole, paglietta dura e giacca di alpagà, il bastoncino da passeggio o le mani dietro la schiena e un furtivo sguardo verso le signorine che passeggiavano.

Al tramonto spesso vi sciamavano “i parrineddri”, cioè i seminaristi, che qui venivano a fare la loro passeggiata accompagnati dagli assistenti e talvolta erano soggetti ai lazzi che impertinenti ragazzi in borghese organizzavano ai loro danni.

La domenica si potevano vedere invece in fila le orfanelle del boccone del povero che speravano nella carità di qualche dama per gustare almeno in quel giorno di festa un cono o una pasta.

Per molti giovani c’era invece il bigliardo del Caffè della Vittoria, che costituiva quasi una sorta di quartiere generale dove si trascorrevano pomeriggi interi parlando della squadra di calcio, dei professori terribili, delle avventure d’amore iniziate magari con un incontro al viale e conclusasi talvolta con qualche “fuitina”.

 

Sempre più internazionali e più riconosciuti

ragazzi in costume folkloristico tradizionale agrigentino

Dopo aver ottenuto il patrocinio del Consiglio dei Ministri la “Sagra del mandorlo in Fiore” tenta il rilancio ed è adesso candidata ad essere Patrimonio dell’Unesco nella sezione dei beni immateriali.

Già nel 1997 l’amatissima Valle dei Templi venne riconosciuta dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, sito fra i beni patrimonio dell’Umanità.

Adesso si prova ad aggiungere la Sagra del mandorlo in fiore fra quelli che sono i beni immateriali, come “l’Opera dei pupi” già accettata.

La sagra del mandorlo in fiore con le sue peculiarità è stata ritenuta infatti dal Comune di Agrigento e dal distretto turistico meritevole di questa onorificenza che la porterebbe ad avere i supporti e gli apparati culturali a mantenerla un evento tradizionale e non meramente turistico.

Hanno presentato uno studio a corredo dell’istanza di iscrizione che sarà valutato prossimamente.

Vista la congruenza della Sagra con i criteri di selezione:

  • tradizioni ed espressioni orali (compreso il linguaggio in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale)
  • arti dello spettacolo
  • consuetudini sociali, eventi rituali e festivi; d) cognizioni e prassi relative alla natura e all’universo
  • saperi e pratiche legati all’artigianato tradizionale

vi è una grande possibilità di essere accolti.

Ospitalità, un principio caro a Zeus ed agli Agrigentini

Andrea Appiani (circle) Jupiter und Merkur bei Philemon und BaucisTra le qualità possedute dagli agrigentini senza dubbio una delle più note è l’ospitalità.

Il calore verso chi proviene da altri posti accomuna tutti i siciliani, ma gli agrigentini nell’aprire le porte di casa agli ospiti sono davvero straordinari.

La premura con cui ogni “giurgintano” si prodiga ad aiutare chi è nuovo del posto è notevole già dalla cura con cui ci si mette a disposizione quando si incontra qualcuno che è in cerca di una via o di un albergo; ecco che subito vedi l’agrigentino cercare di farsi capire dallo straniero di turno, improvvisando un inglese scolastico e forse un po’ gesticolato.

Che tu sia un turista italiano o straniero non resterai mai senza l’informazione desiderata perché troverai sempre una persona premurosa pronta a donarti la sua ospitalità fino al punto di accompagnarti all’ingresso del posto desiderato.

Un altro esempio di ospitalità è possibile ritrovarlo nella cura con cui gli agrigentini sono soliti mettere a disposizione le proprie case agli ospiti, anche se si tratta di persone con le quali non si hanno stretti rapporti di amicizia o parentela.

Si parte dai cibi gustosi e abbondanti, preparati secondo le tipiche ricette locali, fino ad arrivare alle profumatissime lenzuola, che odorano di bucato, messe a disposizione dai padroni di casa.

Gli agrigentini hanno fatto loro il principio dell’ospitalità caro a Zeus, noto anche grazie al mito di Filemone e Bauci, narrato nelle “Metamorfosi” di Ovidio.

Si narra che Zeus, sceso sulla terra insieme al figlio Ermes con l’aspetto di poveri mortali, si vide rifiutato dagli abitanti del luogo. Soltanto due anziani coniugi, Filemone e Bauci, che vivevano in una misera casa, diedero loro generosa accoglienza, mettendo a disposizione tutto quello che avevano.

Zeus, riacquistato insieme al figlio l’aspetto da divinità, punì gli abitanti della città, colpevoli di non avere onorato il principio dell’ospitalità, sommergendo tutto con le acque.

Ma Zeus salvò i due coniugi e trasformò la vecchia capanna in un tempio.

Inoltre concesse loro di morire nello stesso momento per non vedere la morte dell’altro coniuge; alla loro morte Filemone fu trasformato in quercia e Bauci in tiglio.

La sicilianità nella musica contemporanea

Negli anni si sono susseguiti nuovi cambi generazionali che hanno sempre mantenuto il rispetto per la musica tradizionale siciliana riproponendola in nuove versioni come Roy Paci con “Malarazza”, uno dei successi di Modugno.

Siciliani di eccellenza sono anche i “grandi nuovi” che mantengono la tradizione del bel canto come Franco Battiato e la sua delicatissima “Stranizza d’amuri”, un giro armonico sulle note dell’eneagramma o la famosa cantantessa Carmen Consoli con “Focu de raggia” (feat Goran Bregovic) a ricordo anche delle nostre miste origini.

Richiamati quelli che sono i grandi ambasciatori della Sicilia e della sua evoluzione c’è da dire che di gruppi siciliani minori ve ne sono molti, quasi tutti giovani e di ogni parte della Sicilia.

 

Non si possono citare tutti ma la nostra playlist personale ne prevede 5 che si caratterizzano per testi e sonorità particolarmente legati a questa nostra terra.

Questi gruppi sono spesso accusati di non riuscire a “sfondare” per l’eccessivo legame alla Sicilia, che li rende poco nazionali, ma loro non demordono, perché è da questa terra che traggono l’ispirazione.

 

Impossibile non citare Ipercussonici, band catanese fondata nel 2002 dall’incontro di musicisti influenzati anche da esperienze in Africa e Oceania.

Le loro sonorità sono molto miste e prevale fra i diversi strumenti il marranzano, con le quali si ottengono dei suoni elettronici pari a quelli dei sintetizzatori.

Tanti sono i loro successi che li hanno portati in giro in tournée internazionali citiamo “Quannu moru, faciti ca nun moru”, una canzone di denuncia contro la mafia dedicata a Rosa Balistreri.

I Kunsertu, fondati a Messina nel 1989, famosi a livello italiano, con una musica che è sapiente unione della Sicilia e del Maghreb, ma con influssi provenienti da tutta l’Africa.

I testi affrontano spesso tematiche legate all’attualità, dalle stragi nei campi profughi palestinesi al dramma dell’immigrazione, senza dimenticare la natura romantica che li ha portati al successo con la loro “Mokarta”.

Tornado alla vera tradizione ci preme citare i Mas-Nada e I Beddi.

I primi si formano nel 1994 a Modica e compongono in siciliano con un percorso di ricerca, facendo loro le tradizioni sia del loro luogo natio che della Sicilia in generale, mischiando la loro musica con il vicino Nord Africa.

Fra i loro brani “Chistu nunn’è u pararìsu”, è la storia dell’incanto del mondo visto con gli occhi di un bambino e della sua disillusione sul mondo.

I Beddi, nome completo “I Beddi musicanti di Sicilia”, invece sono un gruppo del catanese che vede la nascita del loro esistere nel 2010, e appartiene a quel genere musicale completamente rinnovato del Siciliy Unconventional Folk; il folk de I Beddi è infatti contaminato oltre che da musiche di altre regioni del mondo anche da generi musicali moderni.

Fra i diversi successi vi facciamo ascoltare “L’Armata dei Pupi Siciliani” un riassunto della storia siciliana contemporanea che parla della voglia di non essere pupi e marionette, ma rivoluzionari.

Una menzione speciale va a Lello Analfino e ai Tinturia, gruppo agrigentino nato musicalmente nel 1999, raggiunge la consacrazione con l’interpretazione della colonna sonora di un famoso film di Ficarra e Picone “Andiamo a quel paese”, che con la sua “Cocciu d’amuri” ha raggiunto in 3 giorni un pubblico stimato in oltre 3 milioni di persone.

Resta indimenticabile anche la sua interpretazione di “Nicuzza”, dell’autore di Franco Finistrella, che la dedicò a sua moglie.

Dura a morire è dunque la voglia di parlare di Sicilia per i suoi cantautori e musicisti, e come del resto non farsi incantare e trarre ispirazione, seppur in questo rapporto di odio e amore, per questa terra?

Carciofi alla siciliana o ripieni

Questa ricetta è antica, ed è anche una alla quale sono più affezionata.

Questo deriva dal ricordo olfattivo particolarmente tipico emanato dalla pentola che borbotta nei mesi invernali, e sparge calore e il tipico odore rinfrescante del carciofo.

 

Il ricordo è particolarmente piacevole anche per il modo particolare di mangiare questa antichissima verdura, che è una delle più ricche di vitamine calcio e fibre, insomma come diceva la nonna “mangia che ti fa bene” e in questo caso è proprio vero.

Il mangiare carciofi è un rito e lo si compie con le mani: ognuno riceve sul suo piatto una di queste multifoglie che sembra floreale, si comincia a mangiare staccando dall’esterno fino al cuore ogni foglia e rosicchiandola con i denti dalla base fino a che non si incontra la parte più dura.

A metà la struttura del carciofo smette di reggere, e allora si prende delicatamente il ripieno e lo si mette da parte, perché si lascia per ultimo.

Si continua con le foglie tenerelle al centro del carciofo e poi si mangia il cuore: dolcissimo e profumatissimo.

Infine si mangia il ripieno, saporitissimo ed in contrasto col dolce del cuore: un’esplosione di sapori.

Così mi hanno insegnato a mangiarlo da bambina e così lo si mangia ancora a casa mia, dove siamo tutti un po’ bambini.

 

Tempo di preparazione: 40 Minuti
Tempo di cottura: 60 minuti
Tempo totale: 100 minuti

 

Ingredienti per 4 persone

  • 8 Carciofi
  • Il succo di 2 limoni
  • 250 Grammi di pangrattato
  • 50 Grammi di pecorino grattugiato
  • Una manciata di prezzemolo tritato
  • 50 Grammi di pinoli
  • 1 Uovo
  • Olio extravergine d’oliva, sale e pepe quanto basta

 

Preparazione

Pulite i carciofi, levando le prime foglie e tagliando ogni gambo in modo che ogni carciofo possa star dritto nel tegame. Togliere le punte spinose tagliando il carciofo fino a trequarti. Lavate i carciofi e metteteli a bagno in acqua e limone.

In una ciotola mescolare bene il pangrattato con il formaggio grattugiato (in alternativa potete usare il parmigiano), i pinoli e con un trito di prezzemolo e aglio.

Aggiungere il sale e il pepe ed irrorare con un filo d’olio; aggiungere l’uovo mescolando il tutto.

Scolate i carciofi dal bagno nell’acqua diventata ormai acidula e aprirteli al centro spingendoli o con le mani o aiutandovi con l’angolo di un tavolo in modo da allargare le foglie centrali.

Riempire i carciofi, foglia per foglia, con il composto.

Metterli l’uno accanto all’altro, ben stretti, in un tegame con un po’ di acqua.

Mi raccomando i carciofi non devono essere completamente ricoperti di acqua, quindi l’acqua va aggiunta dopo aver posizionato i carciofi belli stretti (per riempire il vuoto si usano spesso patate e o uova), quindi bisogna versare acqua fino ai trequarti delle foglie esterne.

Insaporite l’acqua con del sale e un po’ d’olio.

Anche sulla testa dei carciofi ripieni mettete un bel filo di olio.

Chiudete la pentola è metteteli sul fuoco per circa un ora.

Vi accorgete che i carciofi sono pronti quando le foglie esterne diventano più morbide e quindi si staccano più facilmente dalla base (ma non fate troppi assagini 😉 ).

“La Mennulara” di Simonetta Agnello Hornby

"La Mennulara" di Simonetta Agnello HornbyQuesto romanzo è stato il fortunato esordio per la famosa autrice siciliana Simonetta Agnello Hornby e l’inizio di una lunga serie di successi letterari.

Si presenta fin dalle prime pagine come una storia intrigante e complessa, con allo sfondo una Sicilia divisa tra sentimenti arcaici e la rincorsa alla ricchezza.

Il racconto inizia il 23 settembre 1963, giorno della morte di Rosalia Inzerillo, conosciuta da tutti come la “Mennulara”, per essere stata da giovane una raccoglitrice di mandorle.

La Mennulara, Mennù per la famiglia Alfallipe dove inizia a lavorare come domestica all’età di 13 anni, ma che ben presto, si aggiudica un ruolo ben più importante di quello di semplice cameriera, in quanto, grazie alla sua brillante intelligenza, diventa l’amministratrice di tutti i beni della famiglia, salvandola da un sicuro fallimento dovuto alla disorganizzazione amministrativa del capo famiglia, Orazio.

Senza di lei, Orazio Alfallipe avrebbe dissipato proprietà e rendite.

Senza di lei, Adriana Alfallipe, alla morte del marito, sarebbe rimasta sola in un palazzo enorme e senza di lei, i loro figli, Gianni, Lilla e Carmela, sarebbero cresciuti senza futuro.

Pur essendo semi analfabeta, leggendo e scrivendo in modo incerto, era comunque estremamente abile nei conti. Per questo diventa per una presenza fondamentale per la famiglia Alfallipe sia dal punto di vista affettivo, amata e odiata in misura diversa da ciascuno dei componenti della famiglia, che da quello economico: la sua abilità nel gestire i beni della famiglia, consente loro di vivere nell’agiatezza, senza preoccupazioni economiche ma anche senza il minimo sentimento di riconoscenza per il suo operato, tanto che al suo funerale, gli stessi proveranno non solo un senso di sollievo, ma scateneranno una “caccia al testamento” per riuscire ad accaparrarsi le misteriose ricchezze della defunta.

La vita della Mennulara che fin dalla prima giovinezza è stata segnata da eventi drammatici come la morte del padre, la responsabilità di mantenere la sorellina e la madre malate di tubercolosi e la violenza carnale subìta e che solo grazie all’intelligenza e al suo temperamento tenace ed inflessibile, era riuscita a trasformarli in eventi a lei vantaggiosi, circondandosi da una corazza di austera freddezza e incutendo a tutti timore e rispetto reverenziale, fa della sua storia il fulcro attorno al quale si sviluppa l’intero romanzo e la vita di un paese di provincia, Roccacolomba, dove tutti parlano (e sparlano) di lei, favoleggiando sulla ricchezza che avrebbe accumulato in modo quasi misterioso, forse addirittura grazie a dei poco chiari legami con un mafioso.

Tutti ne parlano perché sanno e non sanno, perché c’è chi la odia e la maledice e chi la ricorda con gratitudine, perché di bene, la Mennulara ne ha fatto, anche se i suoi modi selvatici e la sua scontrosità non la rendono popolare, anzi “Selvaggia era e selvaggia rimase: se uno le faceva una domanda trasaliva tutta, rispondeva grugnendo, lanciava certe occhiate come un cane pronto a difendersi, aveva gli occhi neri come carboni accesi che volevano bruciare chi le rivolgeva la parola.

Così la descrivono in paese e proprio attraverso gli abitanti del paese e i membri della famiglia Alfallipe, il racconto si snoda di capitolo in capitolo in un susseguirsi di colpi di scena che sempre più trasformano la figura della protagonista da carnefice a vittima, spogliandola del suo gelido riserbo e restituendoci un personaggio indimenticabile, vivo e palpitante, oltre a uno spaccato dell’entroterra siciliano, dove le passioni, la violenza, la malattia, le amanti, la vita e la morte ma anche il pettegolezzo che tutto porta e tutto trasforma, impregnano il romanzo di un fascino che avvince il lettore, pagina dopo pagina.

 

La Tarantella: Origini della Danza Tipica Siciliana

Ritmi accattivanti e solari, tamburelli, costumi dai colori vivaci e sorrisi: la tarantella è la danza-simbolo del Sud Italia.

Le sue origini attraversano la storia della nostra cultura, a cominciare dalle nostre origini greco-romane, con Gneo Nevio, che scrisse la “Tarentilla”, una commedia latina di ispirazione greca, che ha come protagonista una bella ragazza di Taranto, città che, all’epoca era conosciuta come Tarentum.

Il nome “tarantella” deriva da “taranta”, termine che indicava la tarantola o Lycosa tarentula, un ragno velenoso. Per i nostri avi, danzavano la taranta coloro che erano stati morsi da un ragno.

Si danzava nelle feste pubbliche pagane, e poi, con l’avvento del medioevo, il ritmo frenetico della danza venne giustificato come pratica di guarigione, una sorta di esorcismo per scacciare i demoni, rappresentati simbolicamente dal veleno del ragno.

La tarantella rappresenta una parte importante della cultura contadina, arcaica ed è ostinatamente legata alle favole e ai riti della terra e degli astri.

Con il passare del tempo, la tarantella, lentamente, si modifica tramandandosi oralmente di generazione in generazione, e si evolve nella sua funzione ora di ballo collettivo o di coppia, ora di processione nelle feste rituali, ora di ritmo e di forma musicale e poetica di serenate portate alla finestra dell’innamorata.

È questo il nucleo vitale della musica popolare, che riproduce, con l’urto viscerale del ritmo e della percussione, l’esplosione dei sensi e dei sentimenti.

La danza della tarantella racconta un meridione ricco di valori e di storia, lontano dai clamori delle corti, capace di stimolare in ogni individuo un forte senso di appartenenza.

Bisognerà attendere i grandi coreografi di fine Ottocento per vedere sul palcoscenico di un teatro la danza della tarantella, che, nell’immaginario collettivo, è, per antonomasia, un’esclusiva napoletana.

Questo luogo comune nasce dai grandi balletti classici, dai Ballets Russes di Serge Diaghilev, come il Lago dei Cigni e lo Schiaccianoci di Tchaikovsky o la Boutique Fantastica di Rossini, nei quali compare sempre una tarantella, una danza che rende onore all’Italia, considerata , in questi balletti, come terra mitologica e lontana, luogo di gioie e spensieratezza, come appare nell’Infiorata a Genzano, un balletto creato dal coreografo danese August Bournonville , ispirato dall’omonima manifestazione popolare, sulla scia dell’entusiasmo dei danesi per tutto quello che riguardava l’Italia.

Nel XIX sec. la tarantella è divenuta uno degli emblemi più noti del Regno delle Due Sicilie ed il suo nome ha sostituito i nomi di balli diversi preesistenti di varie zone dell’Italia meridionale, diventando così la danza italiana più nota all’estero.

La diffusione di moda del termine spiega il fatto che oggi varie tipologie di balli popolari e musiche da ballo recano il nome di “tarantella”.

Ancora oggi la tarantella rimane un incontaminato tesoro poetico ed espressivo, e lega insieme le espressioni di regioni diverse dell’Italia.

 

Intervista ad Emanuele Lo Vato

Oggi intervisto Emanuele Lo Vato, che da molto tempo si occupa dell’annoso problema dell’acqua ad Agrigento (non vorremmo che ce ne fosse carenza durante la festa 😉 )

 

Emanuele Lo VatoCiao Emauele… ti va di presentarti?
Emanuele Lo Vato, ex dipendente della ex Telecom, svenduta al miglior offerente di scatole cinesi, oggi in pensione.

 

Ed adesso, dopo le presentazioni, passiamo alle domande serie… tu dedichi molto del tuo tempo a parlare della crisi idrica di Agrigento e delle mancanze del gestore deputato…
Fai parte di un qualche movimento politico o sei un “semplice” attivista?

Faccio parte di Intercopa, un (comitato intercomunale per la gestione pubblica dell’acqua) che ad oggi viene rappresentato da 22 comuni su 27 che hanno consegnato le chiavi a Girgenti Acque. Dico solo 27, perché gli altri sono stati più furbi e non hanno consegnato le chiavi a Girgenti Acque.

 

Il problema dell’acqua è storico ad Agrigento: temi che con l’afflusso di turisti si aggravi?
Non credo che siano i turisti che fanno aggravare la mancanza dell’acqua, anzi penso che la mancanza dell’acqua faccia mancare i turisti.

 

Hai notizie di alberghi o B&B che sono restati senz’acqua, magari proprio durante eventi importanti come la Festa del Mandorlo in Fiore?

So di B&B che sono rimasti senz’acqua, ho saputo di recente che anche alberghi di S. Leone sono rimasti senza acqua.

 

Secondo te, quando i turisti vedono il rubinetto “a secco”, cosa pensano?

Cosa dovrebbero pensare? Che ancora la civiltà non sia arrivata ad Agrigento, oggi insieme a Caltanissetta ed Enna è la citta che paga più di tutti l’acqua ma non ce l’ha corrente, ma con dei turni assurdi e fuori qualsiasi normalità.

 

Mi accennavi che vi sono diverse residenze a San Leone (il quartiere balneare di Agrigento, nota di Flavio) che hanno problemi di approvvigionamento idrico…

Non è solo il problema di S. Leone, ma si manifesta a S. Leone perché d’estate riversandosi una parte di Agrigento nel litorale il consumo idrico aumenta, mentre la fornitura è sempre uguale o forse diminuisce, e si verificano anche dei fatti che fanno scappare quei turisti che hanno avuto l’idea di andare a vivere a S. Leone per tre mesi o meno: visto che non possono farsi una doccia dopo il mare, l’anno successivo non vengono più a S. Leone.

 

Ormai l’aspetto paesaggistico di Agrigento non sarebbe lo stesso senza i famosi (o famigerati) serbatoi d’acqua per far fronte alle crisi… pensi che ci sia speranza di un cambiamento?

Hanno fatto non so quante inchieste anche televisive sul fenomeno dei serbatoi, come se gli agrigentini senza non potessero farne a meno, ma non sanno purtroppo che ne faremmo volentieri a meno, visto anche che ci aumenta il costo (per l’energia elettrica e il costo dei serbatoi o delle vasche).

 

In tempi brevi?

Non credo che in tempi brevi si possa andare verso la normalità, ad oggi il gestore non ha fatto nulla che possa far capire o far pensare ad un cambiamento, visto le numerose mancanze o richieste di costruzione di depuratori o della rete idrica finanziate ma mai fatte, e che oggi ci vedono anche con 11 depuratori sequestrati e con una rete idrica che è un colabrodo.

 

Ma qualcosa sul fronte giudiziario si è tentato?

Sul fronte giudiziario si sono fatte tantissime cause presso il giudice di pace (perché costa di meno) ma si sa che non fa testo giuridico, altre si sono fatte, come quella sulle tariffe del dicembre 2016, ma anche questa, se pur fatta presso il tribunale, ha validità solo per quelli che hanno fatto causa e non per tutti, pur essendo un argomento che interessa la totalità dei cittadini.

 

Con che risultati?

L’unica causa con una certa rilevanza giuridica è quella del sindaco di Grotte che al TAR di Palermo aveva diffidato Girgenti Acque a non disattivare gli scarichi della fognatura in caso di morosità degli utenti, e che ha vinto impedendo a Girgenti Acque alla non la disattivazione degli scarichi nel Comune di Grotte. Purtroppo anche in questo si è visto la poca accortezza o controllo dei sindaci con esclusione del Comune di Favara perché aveva fatto identica diffida a Girgenti Acque senza procedere ad atti giudiziari nei confronti di Girgenti Acque. Ma, secondo me quello che è mancato il controllo è dell’ATO che dovrebbe verificare il rispetto della convenzione stipulata nel 2007 tra l’allora presidente della provincia Fontana e Girgenti Acque.

 

So che hai un gruppo Facebook al riguardo, ti va di darci l’indirizzo del gruppo?

Il gruppo è “Riportiamo l’Acqua Pubblica ad Agrigento” ma su Facebook si trova pure il gruppo Intercopa, che tratta solo esclusivamente solo i problemi dell’acqua.