Carciofi alla siciliana o ripieni

Questa ricetta è antica, ed è anche una alla quale sono più affezionata.

Questo deriva dal ricordo olfattivo particolarmente tipico emanato dalla pentola che borbotta nei mesi invernali, e sparge calore e il tipico odore rinfrescante del carciofo.

 

Il ricordo è particolarmente piacevole anche per il modo particolare di mangiare questa antichissima verdura, che è una delle più ricche di vitamine calcio e fibre, insomma come diceva la nonna “mangia che ti fa bene” e in questo caso è proprio vero.

Il mangiare carciofi è un rito e lo si compie con le mani: ognuno riceve sul suo piatto una di queste multifoglie che sembra floreale, si comincia a mangiare staccando dall’esterno fino al cuore ogni foglia e rosicchiandola con i denti dalla base fino a che non si incontra la parte più dura.

A metà la struttura del carciofo smette di reggere, e allora si prende delicatamente il ripieno e lo si mette da parte, perché si lascia per ultimo.

Si continua con le foglie tenerelle al centro del carciofo e poi si mangia il cuore: dolcissimo e profumatissimo.

Infine si mangia il ripieno, saporitissimo ed in contrasto col dolce del cuore: un’esplosione di sapori.

Così mi hanno insegnato a mangiarlo da bambina e così lo si mangia ancora a casa mia, dove siamo tutti un po’ bambini.

 

Tempo di preparazione: 40 Minuti
Tempo di cottura: 60 minuti
Tempo totale: 100 minuti

 

Ingredienti per 4 persone

  • 8 Carciofi
  • Il succo di 2 limoni
  • 250 Grammi di pangrattato
  • 50 Grammi di pecorino grattugiato
  • Una manciata di prezzemolo tritato
  • 50 Grammi di pinoli
  • 1 Uovo
  • Olio extravergine d’oliva, sale e pepe quanto basta

 

Preparazione

Pulite i carciofi, levando le prime foglie e tagliando ogni gambo in modo che ogni carciofo possa star dritto nel tegame. Togliere le punte spinose tagliando il carciofo fino a trequarti. Lavate i carciofi e metteteli a bagno in acqua e limone.

In una ciotola mescolare bene il pangrattato con il formaggio grattugiato (in alternativa potete usare il parmigiano), i pinoli e con un trito di prezzemolo e aglio.

Aggiungere il sale e il pepe ed irrorare con un filo d’olio; aggiungere l’uovo mescolando il tutto.

Scolate i carciofi dal bagno nell’acqua diventata ormai acidula e aprirteli al centro spingendoli o con le mani o aiutandovi con l’angolo di un tavolo in modo da allargare le foglie centrali.

Riempire i carciofi, foglia per foglia, con il composto.

Metterli l’uno accanto all’altro, ben stretti, in un tegame con un po’ di acqua.

Mi raccomando i carciofi non devono essere completamente ricoperti di acqua, quindi l’acqua va aggiunta dopo aver posizionato i carciofi belli stretti (per riempire il vuoto si usano spesso patate e o uova), quindi bisogna versare acqua fino ai trequarti delle foglie esterne.

Insaporite l’acqua con del sale e un po’ d’olio.

Anche sulla testa dei carciofi ripieni mettete un bel filo di olio.

Chiudete la pentola è metteteli sul fuoco per circa un ora.

Vi accorgete che i carciofi sono pronti quando le foglie esterne diventano più morbide e quindi si staccano più facilmente dalla base (ma non fate troppi assagini 😉 ).

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Spatola al miele della nonna

L’agrodolce in Sicilia è un must. Uno di quei sapori e soprattutto odori che caratterizzano una cucina e portano alla luce le sue influenze arabiche.

Molti dei piatti siciliani infatti sono influenza della popolazione musulmana che nei tempi passati invase l’isola, portando con sé colture e tradizioni che sono diventata parte integrante della in seguito più rafforzata cucina Siciliana.

Come in tutti i casi, il luogo in cui l’interculturalità è più gradito, è la cucina: pronta ad accogliere le maestrie e i sapori degli altri luoghi e a metterli in commistione con quelli autoctoni, e da questi nascono esperimenti che rendono caratteristica la nostra cucina, come l’arancina.

La spatola all’agrodolce non fa eccezione, certo mia nonna la chiamava spatola al miele e guai a dirle che era una cosa araba, perché per lei era una ricetta segreta di sua madre, la meraviglia del tramando.

La spatola, conosciuta anche come sciabola o signorina del mare, è un pesce lungo e nasiforme conosciuto soprattutto a sud. E’ un pesce povero anche se il suo colore è l’argento vivo, tanto vivo da tingere le mani. Il gusto è delicato e si sposa benissimo con l’agrodolce di questa ricetta, in quanto la porosità della carne permette l’assorbimento della mistura di miele e aceto e ne esalta il sapore.

Un ultima cosa da dire riguarda il miele. Possibilmente di arancia, ma è molto buono e adatto alla ricetta anche quello di sulla (pianta leguminosa tipica dell’area del Mediterraneo, presente pressoché in tutte le Regioni del Centro-Sud Italia) oppure di zagara di limone.

 

Spatola in Agrodolce

Preparazione: 15 minuti
Cottura: 15 minuti
Totale: 30 minuti

Ingredienti per 4 persone:

  • 1 Spatola sfilettata
  • Mezzo bicchiere d’aceto
  • 1 Cucchiaio di miele
  • Farina quanto basta
  • Olio extravergine d’oliva
  • Sale quanto basta

Dal pescivendolo fatevi diliscare una bella spatola, e tagliare a pezzi di circa 10 centimetri di lunghezza.

Una volta in cucina, lavatela e asciugatela con la carta assorbente. infarinate i pezzetti di pesce e scuoteteli dalla farina in eccesso. Ora potete accendere il gas sotto una padella capiente con abbondante olio di oliva ( circa 1/2 bicchiere).

Fate dorare la spatola da entrambi i lati ( circa 3 minuti per lato) e quando sarà pronta mettetela in un piatto a togliere l’olio. Salatela.

Una volta fritto tutto il pesce mettete nel fondo di cottura l’aceto e il miele finché non si scioglie. Riprendete la vostra spatola e mettetela nella padella con questo composto facendo insaporire a fiamma bassa per circa 2 minuti.

Il piatto è pronto per essere portato in tavola, non troppo bollente perché il miele raggiunge alte temperature.

Se lo preparate un po prima potete metterlo in una pirofila e irrorarlo col sughetto della padella così che si insaporisca ancora di più.

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Intervista al Presidente del Gruppo Folkloristico Val d’Akragas

gruppo val d'akragas in costume tipico siciliano

donne val d'akragas in costume tipico sicilianoVal d’Akragas: la storia del folklore Agrigentino e non solo.

L’insieme di tradizioni popolari di una cultura, che riguardano musica, canto, danza, ma anche usi e costumi, filastrocche, miti e altre narrazioni si racchiude all’interno di un unico termine: Folklore.

Un gruppo folkloristico è quindi spesso non solo volto alla esibizione, ma anche e soprattutto al delicato compito di mettere a conoscenza e tramandare la cultura di un luogo, facendosene rappresentate e ambasciatore nel mondo.

Questo è il ruolo che da sempre svolge il Val D’Akragas gruppo folkloristico Agrigentino.

Abbiamo intervistato il presidente Lello Casesa, chiedendogli appunto di farci da guida nella storia di questo bene immateriale così importante che è la cultura, e chiedendogli, inoltre, in che modo il Val d’Akragas sia correlato alla Sagra del Mandorlo in fiore.

 

“Agrigento è un piccolo centro, ed è conosciuta anche e soprattutto per la sua cultura storica nel mondo, come il Val d’Akragas ha influito in questo secondo lei?”

<<Non è facile poter raccontare in poche righe cosa è stato il Val d’Akragas e, soprattutto, come da una città piccola come Agrigento, una compagnia di giovani abbia potuto sopravvivere e rilanciarsi promuovendo in tutto il mondo il nome della Sicilia e di Agrigento anche in luoghi nei quali non sapranno mai cosa è Agrigento e la sua Sicilia.

Questo è stato il Val d’Akragas – esser fieri di un territorio siciliano promuovendone l’immagine straordinaria di una attività folkloristica, culturale, sociale in ogni parte del mondo.

In una sola parola Val d’Akragas = Agrigento = Sicilia.>>

 

premio tempio oro val d'akragas
Nella foto sono presenti da sinistra: Benedetto Adragna, Gigi Casesa e Pippo Agozzino

“Le va di raccontarci come nasce il gruppo folkloristico? Quali sono i nomi che lo hanno voluto e portato avanti?”

<<I Canterini di Val d’Akragas nascono nel 1937 da un’idea di Francesco Flora (padre di Pippo Flora) su precisa volontà del Conte Gaetani di Naro e partecipano alle prime edizioni ad Agrigento dal 1937 in poi, attività sospese a causa di eventi bellici. Nel 1952 Enzo Lauretta ed Ugo Re Capriata – cultori di tradizioni popolari – costituiscono all’interno del Magistrale Politi – Preside prof.ssa Malogioglio Cottalorda - il Val d’Akragas ; un nutrito gruppo di studenti del magistrale prenderà parte alle Sagre del Mandorlo in fiore – spostata da Naro ad Agrigento per la precoce primavera nella Valle e con la volontà di valorizzare nella Sagra il Val d’Akragas che iniziava a muovere i primi passi all’estero visitando i paesi della cortina di ferro ( Ungheria – Cecoslovacchia – Jugoslavia) viaggiando, a quell’epoca, con treni ed autobus per arrivare in quei luoghi sperduti e lontani dalla Sicilia ma animati da un fascino incredibile della musica e della concordia tra i popoli. Tale attività è stata sicuramente possibile per oltre un cinquantennio grazie a Gigi Casesa e Pippo Agozzino che hanno dato continuità e successo al gruppo>>

 

“Sagra del Mandorlo e Festival del Folklore, l’abbinamento viene dunque da un invito del gruppo folkloristico Val d’Akragas?”

<<Si, grande intuizione del Lauretta sarà quella di abbinare alla Sagra del mandorlo in Fiore (con una tipologia siciliana e popolare) il raduno del Costume Italiano e poi Europeo ed il Festival Internazionale del Folklore per consentire al gruppo agrigentino di ricambiare la visita nei paesi esteri venuti ad Agrigento durante il Festival.
Da quel momento dopo gli anni ‘50 il Val d’Akragas ha sempre partecipato e rappresentato l’Italia al Festival Internazionale del Folklore, riscuotendo successi ed entusiastica partecipazione ed aggiudicandosi per ben 4 volte il tempio d’oro attraverso giurie internazionali. >>

 

“Nelle personalità che sono susseguite nella storia del Val d’Akragas, un ruolo importante è stato ricoperto da suo padre, Gigi Casesa, al quale e’ istituito un premio speciale, ma quali sono altri personaggi importanti che Lei ricorda?”

<< Si, come ha detto lei dal 2009 è stato istituito il Premio Speciale “Gigi Casesa” consegnato a gruppi folklorici esteri. Una testimonianza di gratitudine voluta fortemente dall’Ente Provincia, oggi Libero Consorzio comunale e rinnovata dall’Amministrazione comunale ai quali va dato, anche nel 2016, il doveroso apprezzamento. Di certo è da ricordare fra gli altri il Trofeo Ugo Re Capriata, cofondatore del Gruppo, istituito dall’Associazione della stampa alla migliore espressione del gruppo folkloristico estero . Riterrei doveroso ricordare due figure preminenti “ Enzo Lauretta e Giugiù Gallo”, personaggi illustri che hanno dato successo alla manifestazione.>>

 

“Folklore abbiamo detto significa anche tramandare la cultura nel tempo, voi che conoscete le più antiche tradizioni siciliane e in particolare agrigentine, come cercate di tramandarle, in particolare alle nuove generazioni?”

<<Nel 1996 ho fondato il vivaio del gruppo per bambini denominato “I Piccoli del Val d’Akragas” e nel 1997 partecipano alla sagra del mandorlo: un piccolo esercito di circa 50 bambini che ancora oggi partecipa al Festival dei Bambini del mondo nel contesto della Sagra ed altre manifestazioni; la scuola presieduta da Dino Romano rappresenta il fiore all’occhiello del Val d’Akragas e della cultura popolare agrigentina.

Inoltre, dal 2016 e’ stato istituito con decreto del Ministero della Pubblica Istruzione, della Ricerca ed Università il “Centro di ricerca sulle tradizioni popolari siciliane del Val d’Akragas“: un organismo formato da dirigenti delle scuole superiori siciliane e personaggi del mondo accademico, culturale ed artistico (Giuseppe Parello, Lello Analfino, Toti Ferlita, Gaetano Allotta ed altri) con lo scopo di elaborare un progetto sulla identità siciliane e conservare le tradizioni sulla cultura popolare espresse dal gruppo Siciliano.

Il Gruppo di lavoro coordinato dal Ministero della Pubblica Istruzione - Provveditorato Regionale diretto da Raffaele Zarbo – svolge le attività dentro le scuole coinvolte per concludere a maggio di ogni anno il suo percorso.>>

 

“In ultimo, riuscirebbe ad indicarci quale è dunque per Voi l’obiettivo finale della vostra attività?”

<<L’obiettivo che ci prefiggiamo è quello di offrire un contributo ulteriore rispetto al cambiamento sociale, umano e culturale di un territorio che partendo dalle origini della terra di Girgenti abbia rappresentato, in ogni angolo della terra, l’identità siciliana ed agrigentina e la sua straordinaria ricchezza.>>

 

Per chiunque desiderasse maggiori informazioni sul Val D’Akragas può collegarsi al sito internet www.valdakragas.com o alla pagina Facebook dedicata.

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Pasta con le Sarde ed il Finocchietto Selvatico

Definire un piatto tipico in un’ isola così grande come la Sicilia è quasi impossibile. Si trovano diverse versioni a seconda delle provincie, i comuni confinanti, i quartieri e i dirimpettai.

Queste differenze fatte di pinoli, mandorle, acciughe, capperi, pomodori etc. sono quelle che rendono un piatto davvero speciale per ognuno, e vale così anche e soprattutto per la pasta con le sarde e il finocchietto selvatico, succulento primo di pesce azzurro e profumo selvatico di campagna.

Profumo uguale… ma ricette dissimili e quindi vince la legge che la ricetta per essere tradizionale deve essere quella che ti ricordi da bambino e di conseguenza quella della nonna, in questo caso la mia.

La vera particolarità della pasta con le sarde e il finocchietto selvatico è che quando ero piccola si mangiava una volta l’anno: il Venerdì Santo, giorno di astinenza dalla carne e di digiuno, che diventava giorno di festa nell’attesa della leccornia del pranzo. In realtà è un piatto che si può preparare a partire da febbraio e fino al termine dell’estate, quando cioè si trovano gli ingredienti freschi.

Per correttezza dico che la macro distinzione che riguarda la pasta con le sarde è fra bianca o rossa, asciutta o sugosa, nella mia tradizione è rossa e bella bagnata; il formato della pasta sono rigorosamente gli spaghetti e “stai attento a non ti macchiare che non si toglie” è il suono di questo piatto.

 

Ingredienti per 4 persone

  • Sarde: 400 Grammi
  • Finocchietto Selvatico: 400 Grammi
  • Cipolle: 1
  • Olio: 4 Cucchiai
  • Acciughe: 4
  • Pinoli: 1 Cucchiaio
  • Uvetta: 1 Cucchiaio
  • Passata di pomodoro: ½ litro
  • Spaghetti: 400 Grammi

 

La prima cosa da fare è pulire le sarde, squamandole e diliscandole. Il processo è facile: si stacca la testa si mette un dito nel “collo” e si aprono percorrendo tutto il dorso del pesce che se è fresco si lacera molto facilmente. A questo punto è possibile tirare via la spina con le lische, lavarle e asciugarle.

Lavare i finocchietti selvatici ed eliminare la parte più dura dei gambi. Cuocerli per circa 15 minuti se sono piccoli e teneri, altrimenti 20 in abbondante acqua precedentemente salata. Mi raccomando di conservare l’acqua di cottura perché poi serve per cuocere la pasta, quindi il consiglio è di tirarli su con la schiumarola. Una volta scolati devono essere tritati con un coltello.

Per il sugo tritare finemente una grossa cipolla chiara e fatela appassire dolcemente in una padella ampia o un tegame con l’olio extravergine. Quando diventa trasparente unite l’acciuga ben scolata (va bene anche la pasta di acciughe se la avete) e fatela sciogliere nell’olio. A questo punto aggiungete pinoli e uvetta (fatta rinvenire per 10 minuti nell’acqua tiepida).

Aggiungete le sarde (lasciandone da parte 4 o 5 e il finocchietto).

Fate disciogliere il pesce, che si andrà disfacendo e aggiungete la passata di pomodoro e lasciate cuocere per 10 minuti a fuoco vivace prima di controllarli di sale e pepe.

Una volta che avrete aggiustato il gusto abbassate la fiamma e fate cuocere per altri 10 minuti controllando lo stato di cottura.

Accendete il gas sotto la pentola nella quale risiede l’acqua di cottura del finocchietto e portate ad ebollizione, buttate la pasta che deve essere scolata al dente.

Una volta pronta mantecatela un paio di minuti col sugo che deve essere abbondante e non troppo stretto, inserendo anche le sarde che avevate salvato dalla cottura prima.

Impiattatate e servite caldissima!

Una cosa si aggiunge spesso ai primi di pesce al posto del formaggio è il pangrattato abbrustolito: ottenuto in 5 minuti mettendo in una padella un filo d’olio e il quantitativo di pangrattato desiderato. Posta la padella sul fuoco si mescola fino a che non ha ottenuto un colore dorato.

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I Carretti Siciliani di Raffaele La Scala

i carretti siciliani di raffaele la scala

Il settecento regala alla Sicilia tante tradizioni, tra queste quella ormai simbolo del folklore e della sicilianità è il carretto siciliano. Il suono dei campanacci e il canto dei carrettieri accompagnavano il trasporto su questi mezzi di mercanzie destinate ai mercati ed alle case di ricchi padroni.

La devozione da sempre è un dato di fatto nella cultura siciliana, e quindi spesso e volentieri veniva dato incarico agli intagliatori di raffigurare immagini religiose a cui si aggiungono scene di vita quotidiane o di avvenimenti storici ed epici.

Esistono diverse scuole in Sicilia in maestri carradori: Palermo, Catania, Trapani, Castelvetrano e Ragusa; ognuna con le sue particolarità.

Ed è proprio in quest’ultima, a Comiso in provincia di Ragusa, che inizia la storia di Raffaele La Scala: Maestro Carradore. Raffaele inizia da piccolissimo, già a sei anni, dividendosi fra scuola e lavoro imparando l’arte, facendola diventare parte del meraviglioso patrimonio artistico siciliano.

Oggi è possibile visitare i Carretti Siciliani del Maestro La Scala, ad Agrigento, dove il figlio Marcello, nella sua villa, ne detiene una collezione formata da 5 carretti, una carrozza e tutti gli utensili che sono stati necessari per realizzarli.

Ma oltre ad avere il risultato dell’arte del padre, Marcello ha l’eredità del suo lavoro e del suo sapere.

 

Gli abbiamo fatto un paio di domande ed ecco cosa ci ha risposto…

“Cosa vuol dire avere a che fare con questo mestiere antico in questi giorni così moderni, dove tutto è più standardizzato e si punta meno sul pezzo unico?”

<<Sicuramente è una opportunità per poterci fermare e pensare che in questa società così standardizzata il passato ci richiama alle nostre origini per dirci che lo standard passa di moda ma l’unico ritorna sempre e non tramonta mai>>

 

 

“Quale è la prima cosa che ricordi dei carretti siciliani?”

<< L’odore del legno nuovo e il suono del martello che batte sull’incudine >>

 

 

“ Cosa si prova a condividere i tuoi tesori con turisti e curiosi?”

<<È una sensazione meravigliosa perché oggi più che mai vi è un ritorno alle origini, alla riscoperta del nostro passato e sempre con maggiore curiosità>>

 

 

“Come si può visitare la collezione?”

<<Basta contattarci al numero +39 360398231 oppure al +39 3298262635 e prendere un appuntamento>>

 

 

La Pagina Facebook di “Raffaele La Scala maestro carradore Agrigento” è fornita di molte informazioni e splendide foto, così come così Il gruppo “Raffaele La Scala… per non dimenticare…” .

 

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Panelle: non chiamatele fast food

panelle street food sicilianoIl concetto di street food è insito in ogni città siciliana, ma bisogna stare attenti a non confondere questo modo di mangiare per strada con l’idea di veloce del fast food.

Street food è solo perché è pratico: mangiabile nella strada perché se fuori c’è il sole e la temperatura difficilmente scende sotto i 10 gradi anche la sera, allora si possono tranquillamente vivere le piazze e le vie (e ce ne sono davvero di belle), piuttosto che rinchiudersi dentro ai locali e lasciare fuori tutta questa arte.

Diciamo dunque che gli elementi fondamentali per un vero street food sono quelli dell’aria aperta, la praticità del cibo da poter mangiare in piedi o su una panchina e la velocità di cottura o riscaldamento, ma solo di quella.

La maggior parte delle pietanze veloci e facili da mangiare richiede infatti dei lunghi tempi di preparazione, basti pensare alle arancine, tutta la tavola calda in genere, le schiacciate e soprattutto le panelle.

 

Farina di ceci cotta e fritta, che quando lo dici a qualcuno che non le ha mai mangiate irrimediabilmente storce il muso, finché non le assaggia e allora, nell’esaltazione delle papille gustative che incontrano questa semplice frittella, la gioia unta è straripante anche dagli occhi.

Ingredienti per circa 20 Panelle (4 persone):

  • 200 Grammi di farina di ceci
  • Sale e pepe
  • Prezzemolo tritato
  • ½ Litro di Acqua
  • Olio per friggere

Mettete la farina in una pentola insieme all’acqua e fatela sciogliere. Io per evitare comincino a formarsi i grumi già da subito ho l’abitudine di versare l’acqua gradatamente. Mettete la pentola sul fuoco e cominciate a mescolare, normalmente ci vogliono circa 45 minuti prima che l’impasto sia pronto.

Diventerà durissimo da girare e si staccherà dal bordo pentola (mia nonna mi diceva “devi girare finché non senti i polsi che si spezzano”) a metà cottura circa aggiungete un pugno di sale, pepe e il prezzemolo tritato.

Una volta che la crema è cotta ed avrà raggiunto una consistenza davvero corposa disponetela su un piano in uno strato dai 0,2 ai 0,5 centimetri e lasciatela raffreddare almeno 4 ore, o se possibile tutta la notte. La stesura deve essere un operazione veloce perché la crema diventa poco malleabile già da subito.

Spesso per comodità si preferisce utilizzare una bottiglia di acqua vuota (possibilmente senza scanalature) alla quale si taglia la parte iniziale e vi si versa dentro l’impasto pigiandolo bene. In questo caso quando si sarà freddato basterà tagliare la parte finale e spingere l’impasto all’esterno tagliandolo a fettine dai 0,2 ai 0,5 centimetri di spessore.

Una volta tagliate le panelle col metodo della bottiglia, o se si usa la spianatoia a quadrati di circa 5×7 cm, si può accendere l’olio che deve essere caldissimo e mettere a friggere le panelle finché non si dorano all’incirca per 3 minuti.

Le panelle possono essere servite dentro al panino (normalmente tondo e col sesamo) o come antipasto. A scelta l’opportunità di aggiungere sale, pepe e succo di limone.

Sono ottime calde ma se vi avanzano (cosa piuttosto rara) potete anche mangiarle fredde.

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Crocchè di patate alla siciliana

Ci sono sapori atavici che ci riportano indietro nel tempo, ed in una cucina siciliana questo è legge.

Spesso sono ricette provenienti da retaggi culturali e da momenti storici in cui la popolazione non se la passava bene, così alcune ricette diventano da ”giorno di festa” anche se gli ingredienti sono semplici e poveri. Questo è il caso delle polpette di patate, sapore tipico di tutte le cucine delle nonne della Sicilia occidentale.

A Palermo si chiamano crocchè e sono entrate a pieno diritto nella classifica delle pietanze da street food e, seppur con la variante dell’aggiunta della mentuccia, rispetto a quelle agrigentine, sono un piatto buono e caldo.

Le crocchè di patate hanno un segreto: una volta sbollentate e sbucciate le patate devono essere fatte raffreddare, quindi va benissimo prepararle il giorno prima.

 

Le dosi per 4 persone sono:

  • 1 Kg di patate
  • Circa 50 grammi di pangrattato
  • 50 Grammi di grana grattugiato o pecorino
  • 3 Uova
  • Sale, pepe e prezzemolo tritato (quanto basta)
  • Olio di oliva per friggere

 

Mettete a cuocere le patate in abbondante acqua e quando sono pronte (fate la prova con la forchetta, se si infilza facilmente sono cotte) e scolatele. Spelatele subito e lasciatele raffreddare. Una volta fredde si possono schiacciare con lo schiacciapatate o col passa pomodoro dentro una ciotola capiente. Possiamo ora unire sale, pepe formaggio e abbondante prezzemolo e mescolare per bene. Aggiungete ora le uova e il pangrattato e amalgamate accuratamente con le mani. Copriamo la ciotola con la pellicola e poniamo in frigorifero a riposare. Dopo un paio di ore possiamo preparare le polpette bagnandoci leggermente le mani e riponendole su un piano leggermente infarinato in precedenza. E le polpette dovrebbero avere una forma ovale leggermente schiacciata. Fate riscaldare in una padella abbondante olio e quando l’olio sarà caldissimo versate le polpette 5 o 6 alla volta. Una volta dorate saranno pronte e devono essere fatte scolare su carta assorbente. Sono buone anche fredde ma per tradizione vanno mangiate caldissime, difficile resistere alla tentazione di farle arrivare in tavola senza averne mangiate almeno un paio!

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Chiacchiere di carnevale

Carnevale e Sagra del Mandorlo in Fiore ad Agrigento coincidono…

e quando non coincidono il carnevale segue il tempo della sagra più che del calendario, portando i bambini con i loro vestiti colorati a riempire i protagonisti dei gruppi folkloristici di coriandoli e stelle filanti.

Così anche in cucina, in barba al tempo di quaresima, si continua a far sfrigolare la pentola di prelibatezze tipiche del tempo “grasso”. Regine del carnevale in Sicilia, come nel resto di Italia sono le chiacchiere di carnevale, bugie o cenci veneziani che chiamarle si voglia. Nell’olio bollente si gettano queste striscioline di pasta dolce che una volta dorate vengono condite con zucchero o miele e la tipica diavolina, codini di zucchero colorato che le rendono festose.

Certo, per i più salutari c’è la versione delle chiacchiere di carnevale al forno, ricetta uguale ma devono essere stese sottilissime e una volta formate le striscioline infornate, ma in Sicilia, quella tradizionale è fritta e con dosi sempre abbondanti di una cultura fatta per il buon cibo in compagnia.

 

L’occorrente (per circa 4 persone golose 🙂 ):

  • 500 Grammi di farina 00
  • 100 g di Zucchero
  • 2 Uova
  • 1 Limone
  • 1 Bustina di vaniglia
  • 1 Bicchierino di marsala
  • Olio di semi
  • Zucchero a velo o miele
  • Diavolina

 

Una volta disposta la farina a fontana disponete al centro le 2 uova precedentemente battute. Aggiungete il burro a temperatura ambiente tagliato a dadini piccoli (lo rende più facile da amalgamarsi), lo zucchero, il lievito, la vanillina e la buccia di limone grattugiato. Una volta che gli ingredienti sono ben mescolati si aggiunge il liquore e si lavora la pasta per altri 5 minuti fino ad ottenere un impasto liscio e compatto che lascerete riposare coperto con uno strofinaccio da cucina per una mezz’ora. Una volta trascorso il tempo prendete l’impasto e stendetelo con un mattarello su un ripiano infarinato facendolo diventare fra i 2 e i 3 mm di spessore. Con una rotella da cucina o con un coltello tagliate tante strisce di circa 1 centimetro per la lunghezza che preferite e tuffateli nell’olio bollente che avrete fatto riscaldare in una padella con i bordi alti o un pentolino. Le chiacchiere saranno cotte quando saranno dorate. A questo punto fatele scolare su un foglio di carta assorbente per togliere l’olio in eccesso. Ora potete o disporle in un vassoio e ricoprirle di zucchero a velo, oppure sempre dopo averle disposte in un vassoio ricoprirle di miele tiepido e diavolina.

C’è da leccarsi le dita!

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La tradizione culinaria siciliana è slow food

In Sicilia, si sa, l’accoglienza non è vista tanto quanto dovere ma proprio come piacere…

e questo piacere passa spesso per la tavola e per il senso di accudimento un po’ materno di sincerarsi che i commensali abbiano cibo in abbondanza, che sia di loro gradimento e che non ci si alzi da tavola senza avere almeno il primo bottone dei pantaloni saggiamente slacciato per evitare scoppi improvvisi, fra un cambio piatti che vengono ultimati e serviti come nelle migliori sfilate di moda.

Chiunque abbia avuto un amico o un parente del Sud ne ha testimonianze, di questi odori di sugo dal mattino all’alba, di pranzi con una durata standard di 4 ore e della solita domanda “ ne vuoi ancora”? Perché su una tavola siciliana ce n’è sempre ancora di cibo da poter mettere nel piatto ai commensali.

Ogni cibo ha la sua stagione e la tradizione, e poi ci sono gli intramontabili, che non muoiono mai e che vanno bene sia ad agosto che a dicembre, l’importante come dicono le sagge donne anziane è che mentre cucini ci metti l’amore.

Perché che se ne dica, se i più grandi chef sono uomini, al Sud, in famiglia sono le nonne quelle che hanno le “stelle” e hanno il segreto della cucina che solo a sentirne l’odore si capisce che non è riproponibile, se non per discendenza diretta e tanta pazienza.

Ad Agrigento durante il periodo di febbraio, per la sagra, un menù tipico da proporre ad amici e parenti di fuori per fare vivere o rivivere il sentire di una cucina tradizionale potrebbe essere composto da 10 piatti (si 10, siamo in Sicilia!) . Non vi è nulla di complicato nelle ricette, né di particolarmente costoso, ma sicuramente sono piatti che hanno necessità di attenzione, cura e ovviamente tempo. Forse è questo il vero segreto delle nonne del Sud, non avere paura di perdere tempo nel cucinare, ma il piacere di dedicarlo a quello che si fa per i propri commensali, un piacere che parte dall’invito: singolo (ogni persona viene chiamata singolarmente), anticipato (almeno 2 giorni prima) e soprattutto assertivo (guai a dire di no).

Si aggiunge il meraviglioso rito della spesa, che è una vera esperienza fatta di espressioni uniche per garantirsi la qualità e la freschezza del prodotto, che raramente è acquistato al supermercato, ma sempre da i rivenditori diretti e quindi se si mette in menu la pasta con le sarde e il finocchietto selvatico, oppure la spatola al miele, il pescivendolo sarà indagato e gli occhi dei pesci scrutati come se potessero rispondere (e a sapere cosa guardare rispondono davvero), il finocchietto raccolto fresco in un campo, il miele preso dall’apicoltore vicino e il concentrato di pomodoro tirato fuori dalla dispensa che quando lo apri puoi sentire il sole che lo ha asciugato nell’estate.

La mattina dell’invito la cucina comincia a borbottare presto, si mettono a bollire le patate per le tipiche polpettine e se gli invitati sono più di 4 anche per il gateau, perché si ha sempre paura il cibo non basti. Se gli ospiti sono “forestieri” non è possibile non aggiungere le panelle, da girare finché i polsi non rischiano di spezzarsi e poi mettere in posa. A discrezione dell’anfitrione si prepara anche il dolce, che gli invitati porteranno, ma che non si da mai per scontato e si preparano gli impasti per le chiacchiere e per i cartocci, con la ricotta fresca che viene da qualche zona di montagna ed è rigorosamente di pecora. Si prepara il sugo con la pazienza di fare sciogliere le sarde, si pana la spatola e si mettono le verdure in pastella.

Poi arriva la magia vera, si accendono i fornelli e l’olio comincia a friggere, il forno comincia a emanare odore di pane abbrustolito e i piatti da portata cominciano a riempirsi e vengono tenuti in caldo. Tre ore almeno di affaccendamenti finché non arrivano i commensali che vengono investiti da profumi e calore, sorrisi e abbracci, indispensabili in ogni accoglienza.

La tavola è sempre accuratamente apparecchiata e comincia la lenta sfilata del cibo, a ogni portata un applauso, ultimamente anche molti flash sui piatti e la padrona grondante di felicità per ogni nuovo assaggio e ogni nuovo mugolato di piacere e ogni bottone che viene slacciato, ma che ne sanno le modelle di tutto questo….

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