Festa del Mandorlo in Fiore 2019: si lavora al programma, prevista la partecipazione attiva dei gruppi locali

i costumi femminili del gruppo folkloristico gergent

Siamo ancora a Novembre, ma già trapelano le prime notizie certe riguardanti l’edizione 2019 della Festa del Mandorlo in Fiore, la kermesse più attesa dagli agrigentini.

La settantaquattresima edizione avrà inizio il prossimo 2° marzo e si svolgerà fino al 10 marzo. Si lavora ancora al programma, che però è quasi pronto e che prevede già un punto fisso e insindacabile: la partecipazione attiva alla kermesse dei gruppi folkloristici locali.

 

Dopo le polemiche dell’anno scorso, che avevano visto in una prima fase alcuni gruppi locali tradizionalmente legati alla kermesse fare un passo indietro, tanto da rendere noto un comunicato stampa in base al quale professavano di non volere partecipare all’evento per via del poco spazio concesso loro nell’ambito della manifestazione, per questa nuova edizione tutto sembra essere già stato messo in chiaro. Da poco, infatti, è già stato reso noto dal Parco Archeologico della Valle dei Templi, che si occupa dell’organizzazione dell’evento, che i gruppi folkloristici agrigentini sono i padroni di casa e dunque svolgeranno una parte attiva nell’edizione 2019. Per questo è stata inviata una nota ufficiale di invito a tutti i gruppi folkloristici locali, in cui viene sottolineato il loro importante ruolo nell’ambito della manifestazione, che quest’anno, peraltro, è inserita nel Registro delle Eredità Immateriali della Regione Siciliana.

Il loro ruolo consisterà non solo nella partecipazione alle sfilate e nell’esibizione in performance tradizionali, ma anche nel fare da padrini ai tanti ospiti noti che saranno presenti durante l’evento. Nello specifico dovranno farsi portavoce di un messaggio di arte, cultura e tradizione, esprimendo il grande valore storico della kermesse. Inoltre, in misura maggiore rispetto al passato, potranno presiedere a particolari eventi collaterali di festa, formazione e aggregazione, divulgando il loro grande patrimonio musicale, coreutico e canoro. Previsto, inoltre, il rafforzamento dei momenti destinati alle loro esibizioni.

Sempre nella stessa nota, il Direttore del Parco Archeologico Giuseppe Parello ha espresso l’augurio che tutti i gruppi folkloristici locali possano dare l’adesione al programma della Festa del Mandorlo in Fiore 2019, in modo da arricchire la kermesse restituendole il suo naturale patrimonio tradizionale da sempre tutelato dai gruppi agrigentini.

Intanto si continua a lavorare al programma, che prevede la tradizionale apertura della kermesse con il Festival Bambini del Mondo, previsto da giorno 1 marzo fino al 5 marzo, e il proseguo con il Festival Internazionale del Folklore, che si aprirà sempre il 5 marzo con la consueta Accensione del Tripode e terminerà domenica 10 marzo con lo spettacolo finale e la premiazione.

Anche quest’anno il Palacongressi Empedocle sarà il cuore pulsante della manifestazione, nella struttura del Villaggio Mosè si terranno infatti le esibizioni dei gruppi e i Pomeriggi del Mandorlo con l’accoglienza dei gruppi, i laboratori creativi per bambini, i laboratori interculturali, i laboratori del gusto, le mostre e i concerti. Previsti anche momenti di spettacolo e laboratori per ragazzi al Teatro della Posta Vecchia e a Girgenti con l’iniziativa denominata Pomeriggi giurgintani che include focus su danze, laboratori e attività volte alla riscoperta del patrimonio culturale promosso dalla kermesse.

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San Calogero, dalla Storia al Folklore: un Itinerario di Fede e Tradizione

festa di san calogero ad agrigento

Agrigento, definita dal poeta greco Pindaro come “la più bella tra le città dei mortali”, conserva oltre ai meravigliosi resti del mondo greco anche un affascinante patrimonio religioso legato ai culti cristiani, frutto di una millenaria stratificazione multiculturale che nel tempo ha visto mescolarsi le tradizioni cristiane con gli influssi provenienti dal mondo pagano.

Dunque Agrigento è stata meravigliosa protagonista nei secoli di uno straordinario melting pot culturale che ha plasmato il volto attuale della città sotto tutti i punti di vista possibili, mantenendo però sempre radicate le tradizioni religiose.

Così accade che Agrigento sia la città del “Santo Nero”, quel carismatico e miracoloso San Calogero di Girgenti che però veniva da lontano.

 

Un Santo taumaturgo che nelle immagini sacre viene rappresentato con l’aspetto rassicurante di un vecchio eremita dalla lunga barba bianca e dalla pelle scura, dall’ampio mantello sotto il quale ogni pio devoto può simbolicamente trovare rifugio.

Quant’è bello San Calò! Così pulito e rassicurante nella sua figura minuta! Quanto è amato San Calò!

Lo sanno bene gli agrigentini che per lui farebbero ogni sacrificio, ogni fioretto pur di sentirlo vicino, pur di essere accolti sotto la sua ala protettiva, sotto il suo mantello.

 

Descrivere questa comunione viscerale tra gli agrigentini e il Santo non è impresa semplice perché si tratta di una devozione forte e struggente che è palpabile tra la gente, che è facilmente manifesta anche ai turisti che ogni anno giungono in città tra la prima e la seconda domenica di luglio per assistere ai festeggiamenti in suo onore, quando sacro e profano, religione cristiana e paganesimo si mescolano fantasticamente e danno vita a quel grido gioioso che sempre emoziona: “E chiamamu a cu nn’aiuta! Evviva San Calò!” (E chiamiamo a chi ci aiuta! Evviva San Calogero!).

Tuttavia vogliamo provare a farvi immergere in questa meravigliosa atmosfera di fede e di festa e vi proponiamo un simbolico itinerario che partendo dalla storia e dal folklore si inerpica lungo i sentieri della fede e della tradizione, ripercorrendo gli elementi più significativi e le tappe fondamentali della festa del “Santo Nero”.

 

La ricostruzione storica della figura di San Calogero

Proporre una ricostruzione storica della figura di San Calogero non è semplice poiché, come spesso accade nel caso delle vite dei santi, mito e realtà si fondono in modo indissolubile, tuttavia, in questo caso, disponiamo di alcune fonti attendibili sulle quali potere fare affidamento almeno per ciò che riguarda gli aspetti principali dell’esistenza di questa figura religiosa molto carismatica.

Il Santo nacque, almeno secondo la tradizione, in Calcedonia nel 466 d.C., tuttavia a questa data talvolta se ne oppongono altre contrastanti. Il suo nome deriva dal greco e significa “buon vecchio”, un appellativo che si dava anche agli anacoreti che vivevano appartati in luoghi solitari. I suoi genitori erano cristiani e sin da piccolo anch’egli seguì gli insegnamenti di questa religione.

Così, fin da giovane, detestò tutti i piaceri mondani tanto da ritirarsi a vivere in una foresta, dove, lontano da tutti, si dedicò ad una vita in solitudine come eremita contemplando Dio, dal quale ricevette due preziosi doni: quello dei miracoli e quello della profezia. Dopo molti anni di eremitaggio fu chiamato dal vescovo di Calcedonia e fu nominato sacerdote, fu così che cominciò la sua attività di predicazione del Cristianesimo.

Dopo molti anni di attività di evangelizzazione dovette fuggire a causa delle persecuzioni che stavano facendo strage di cristiani nell’Africa Settentrionale.

Giunto in Sicilia si stabilì a Lilibeo, dove si ritirò in una grotta per poi sfidare ogni pericolo e cominciare a predicare il Cristianesimo. Infervorò i popoli con le sue opere di pietà e con i suoi prodigi, prestò cure agli ammalati avvalendosi delle acque sulfuree dell’isola e convertì molti abitanti che in lui vedevano un padre spirituale ma anche un taumaturgo.

Ormai molto vecchio, si stabilì in una grotta sul Monte Cronio a Sciacca e vi trascorse l’ultimo periodo della sua vita, cibandosi, secondo la leggenda, del latte di una cerva, la quale gli fu poi uccisa involontariamente dal cacciatore Arcadio. Sempre secondo la tradizione, morì il 18 giugno del 561 d.C., che è il giorno in cui molti celebrano la festa in suo onore. Il suo corpo venne seppellito sul Monte Cronio da Arcadio, che nel frattempo era diventato suo discepolo, in seguito, per metterlo al sicuro dalle persecuzioni dei Saraceni giunti sull’isola, fu trasferito nel Monastero di S. Filippo di Fragalà, nella diocesi di Messina.

Il legame del Santo con Agrigento nasce dal fatto che si racconta che il monaco Calogero, durante la sua attività di evangelizzazione, mentre dilagava la peste, era solito andare in giro per chiedere il pane da donare ai poveri. Le persone, temendo il contagio, lanciavano il pane al Santo direttamente dalle finestre e lui lo raccoglieva con amorevole cura per offrirlo ai bisognosi.
Calogero fu un personaggio che si caratterizzò per l’eroismo del suo sacrificio, per la sua filantropia, per la santità di vita e di costumi e fin da subito fu forte la devozione nei suoi confronti.

 

Il folklore tra fede e tradizione

La figura di questo Santo Nero, taumaturgo ed eremita, fu subito molto amata tanto che oggi in diversi luoghi della Sicilia viene venerato e portato in processione. Tra i tanti posti, oltre ad Agrigento, che lo vedono protagonista di un forte e suggestivo culto abbiamo: Naro, Porto Empedocle, Realmonte, Sciacca, Canicattì, Aragona, Santo Stefano Quisquina, Campofranco, San Salvatore di Fitalia, Frazzanò, Petralia Sottana e Aliminusa.

Ad Agrigento San Calogero viene venerato come fosse il santo patrono, che in realtà è San Gerlando.

I festeggiamenti si protraggono per otto giorni e vanno dalla prima alla seconda domenica di luglio. In questo periodo in città si respira un’aria di festa anche grazie alla presenza delle luminarie, disposte lungo le vie principali, e della fiera, con le coloratissime bancarelle in cui è possibile gustare leccornie a volontà, in particolare la cubaita di mandorle o di giuggiulena di sesamo e il torrone tradizionale, e la tipica “calia e simenza” a base di ceci e semi di zucca.

Qualche tempo prima dei festeggiamenti ufficiali è possibile assistere per la città alle esibizioni dei tammurinara di San Calò che con il ritmo incalzante dei loro tamburi inneggiano al Santo Nero.

Le loro esibizioni continuano durante i festeggiamenti raccogliendo intorno un gran numero di persone che assistono compiaciute alla performance. Già il venerdì precedente la prima domenica di festa iniziano i pellegrinaggi al Santuario e le funzioni religiose dedicate. Solitamente si tiene anche “U Venniri a Villa”, una manifestazione in cui è possibile gustare i prodotti enogastronomici tipici della zona.

Il pellegrinaggio o viaggio si compie durante tutto il periodo di festa secondo le promesse fatte da uomini e da donne che a gruppo, talvolta a ppedi scavusi cioè a piedi scalzi , si recano al santuario recitando mentalmente o oralmente le preghiere di ringraziamento o di supplica al Santo.

In passato il viaggio terminava non di rado con la lingua a strascinuni, espressione indicante il fatto che il devoto percorreva il tratto dall’entrata della chiesa fino all’altare con la lingua poggiata sul pavimento.

La domenica la festa ha inizio già con “l’alborata” ovvero lo sparo dei mortaretti. Il simulacro del Santo, una copia in vetroresina dell’originale del XVI secolo, viene portato fuori dal santuario a spalla dai portatori di San Calò, che indossano una casacca bianca e una bandana rossa, esattamente a mezzogiorno la prima domenica e alle tredici la seconda.

Il Santo Nero è accolto dagli applausi e dalle urla di gioia dei devoti in un ritmo frenetico che vede l’intensa partecipazione di tutti che, come gli stessi portatori, cercano di salire sulla vara per poterlo abbracciare e baciare e per chiedergli una grazia.

Chi vi riesce può perfino asciugare il sudore del Santo e portare con sé il fazzoletto intriso di quella benedizione che solo San Calò è in grado di dare. Morbide pagnotte, precedentemente benedette, piovono da ogni dove a simboleggiare la carità del monaco che in passato le ha raccolte per i bisognosi.

La gente comune ora le chiede a chi le ha promesse come ex voto per una grazia ricevuta e per questo non di rado rappresentano parti anatomiche collegate alle malattie.

È meraviglioso vedere tra la folla i genitori innalzare a San Calò per promessa i loro bambini che indossano le “vestine bianche”, ovvero i vestitini bianchi di buon auspicio per il loro futuro. Il simulacro viene fatto dondolare, quasi ballare, e i portatori cantano simultaneamente “Pepiti pepiti San Calò”, un’espressione che indica il movimento che si fa dondolandosi. Si aggiungono altre invocazioni al Santo: “E chiamamu a cu nn’aiuta! Evviva San Calò!

La processione, con il Santo portato a spalla dai portatori e fatto barcollare a destra e a sinistra in un arcano rituale che sprigiona grande energia vitale, prosegue per le vie cittadine: via Atenea, via Garibaldi e così fino all’Addolorata, dove alle 18.00 il simulacro viene posto sul carro trionfale.

Un tempo era in uso rifocillare i devoti con maccheroni e vino.

Alle 20:30 la processione ricomincia, seguita dalle autorità comunali e dalle confraternite di Agrigento, e attraverso le strade cittadine giunge al viale della Vittoria dove si tiene lo spettacolo pirotecnico detto “a maschiata di San Calò”.
Dopo di ciò è ormai notte e il Santo viene fatto rientrare nella sua chiesa, non prima però di essere stato nuovamente acclamato, baciato e abbracciato dai suoi devoti che mai lo abbandonano e che con mestizia si decidono a fargli varcare la soglia del santuario.

La sera della seconda domenica di luglio vede l’entrata definitiva del monaco carismatico nel suo luogo di abituale permanenza. Adesso gli agrigentini, che fino a quel momento si erano astenuti per devozione, possono finalmente andare al mare.

 

Il luogo di culto: il Santuario di San Calogero

San Calogero ha un luogo di culto tutto suo, un santuario dedicato che non può non essere meta di pellegrinaggio del devoto più fervente come del semplice turista che giunge in città. Da qui, infatti, il Santo, raffigurato in un simulacro in pietra posto nella nicchia esterna sopra il portale della facciata principale, si affaccia benevolo come a vegliare sulla città, a proteggere gli agrigentini che tanto lo amano.

La chiesa si trova in uno dei luoghi più centrali della città, sorge infatti in piazzetta San Calogero, collocata tra il viale della Vittoria e il piazzale Aldo Moro, a due passi da via Atenea e dalla stazione centrale.

L’edificio risale a un’epoca compresa tra il XIII e XIV secolo, quando la città era governata dalla famiglia Chiaramonte, e secondo la tradizione il carismatico monaco ha soggiornato proprio in quel luogo.

L’edificio ha vissuto alterne vicende. Nel 1573 fu costituita una confraternita di ottantasei cittadini, di cui solo nove ecclesiastici, che si impegnarono a far ampliare la chiesa per accogliere anche un oratorio. Nel 1598 il culto del Santo crebbe ulteriormente grazie al fatto che Papa Clemente VIII aveva approvato la celebrazione dei festeggiamenti in onore del monaco in tutta la Sicilia, da ciò anche il santuario ne trasse grande giovamento. Dopo un periodo di totale abbandono nei primi decenni del Novecento, la chiesa fu restaurata e nel 1977 fu elevata a santuario.

L’interno dell’edificio presenta una divisione in tre navate tramite una doppia fila di sei colonne corinzie. La cappella, posta al centro, ospita la nicchia dove è custodito il simulacro di San Calogero realizzato in legno e risalente al XVI secolo ed è decorata con pregevoli stucchi che riportano i simboli identificativi della vita del santo e cioè il bastone e la cerva.

Di particolare rilevanza sono i mosaici dorati e policromi raffiguranti l’Occhio Divino, il calice con l’ostia e la colomba dello spirito santo. L’altare è stato realizzato in legni pregiati con tarsie in bois de rose forse da artisti cappuccini nel XVI secolo. Infine, nella zona della sacrestia sono raccolti gli ex voto che rappresentano l’intervento miracoloso del Santo in risposta all’invocazione di aiuto dei fedeli, talvolta sono riproduzioni di parti anatomiche collegate alle malattie patite oppure si tratta di oggetti d’oro, dipinti e altro ancora.

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Quelle Volte In Cui La Festa Del Mandorlo In Fiore Saltò…

La Festa del Mandorlo in Fiore ha rappresentato, fin dalla sua nascita, un momento di gioia e di crescita culturale e si è presto consolidata come una tradizione e un appuntamento annuale atteso da tutti.

Eppure ci sono stati degli anni in cui, purtroppo, la Festa del Mandorlo in Fiore è saltata lasciando un incolmabile vuoto nella storia di questa importante kermesse.

Dopo ben quattro edizioni, articolate tra il 1937 e il 1940, la manifestazione folcloristica subì una battuta d’arresto a causa della dura guerra che imperversava.

L’edizione del 1940 aveva riscosso grande successo tanto che molti giornali dell’epoca ne parlarono ampiamente.

All’organizzazione generale della sagra aveva contribuito pure l’Azienda Comunale di Soggiorno, Cura e Turismo di Agrigento, che dopo la guerra, smentite le voci della scoperta di un’acqua termale in città, diventerà semplicemente Azienda Comunale del Turismo.

In particolare, i Canterini agrigentini di Val d’Akragas, sotto la valida ed appassionata guida del loro maestro Professor Francesco Flora, avevano ancora una volta dato prova della loro bravura e dell’accurata preparazione esibendosi nelle più belle e melodiose canzoni della terra agrigentina e riscuotendo applausi e ovazioni da parte di tutta la cittadinanza e delle Autorità locali.

Da quel momento in poi bisognerà attendere fino al 1948 per l’organizzazione della quinta edizione.

Iniziata la guerra, infatti, ogni attività culturale, ogni organizzazione gioiosa di carattere sociale, ogni tradizione, cessò di esistere. Furono anni duri, in cui si pensò che tutto era andato perso, che nulla sarebbe stato più come prima.

Ma quando, finalmente, la tristissima guerra, che anche ad Agrigento durante il sanguinoso periodo dei bombardamenti aveva provocato lutti e macerie, finì la popolazione del capoluogo, che contava poco più di 38mila abitanti, strinse i denti e avviò la rinascita.

Così, dopo quattro edizioni, all’Ente Provinciale Turismo, che già nel periodo anteguerra ne aveva patrocinato e coordinato le iniziative, viene deliberata la continuazione della Sagra.

Si dà così il via alla quinta edizione. Peraltro le prime manifestazioni in epoca fascista avevano dato all’iniziativa l’avvio di una vera e propria festosa tradizione.

Ma la festosa tradizione fu interrotta per altre due edizioni e la Festa del Mandorlo in Fiore saltò nel 1983 e poi nel 1991.

Il 1983 è l’anno del quarantennale e all’Ente Provinciale del Turismo si parte con l’organizzazione con largo anticipo per realizzare un’edizione della Sagra particolarmente brillante.

Come da tradizione viene annunciata anche la data di svolgimento ossia la prima settimana di febbraio.

Ma è noto che, con i propri fondi di bilancio, l’ente organizzatore non riuscirebbe mai a realizzare il grande evento di primavera per cui si attendono i sostegni della Regione.

Ma proprio l’organismo regionale opera durante quei mesi con l’esercizio provvisorio e ciò compromette la speranza di potere rispettare i tempi di effettuazione della manifestazione.

Trascorrono in tal modo diverse inutili settimane, in cui gli organizzatori compiono ripetute missioni a Palermo senza tuttavia conseguire l’atteso finanziamento.

Alla fine l’assessore al Turismo è costretto a dichiarare ai dirigenti agrigentini l’impossibilità di potere erogare alcun contributo.

Così per la prima volta la kermesse subisce, dopo la forzata pausa dovuta al periodo della guerra, una deprecabile interruzione.

La Festa del Mandorlo in Fiore riprende però nel 1984 con la quarantesima edizione e proseguirà ininterrottamente fino al 1991, anno in cui vi è una nuova improvvisa interruzione della festa di primavera.

Stavolta il motivo si riconduce alla guerra del Golfo: l’invasione del Kuwait da parte dei soldati iracheni mette in apprensione il mondo provocando a gennaio una guerra.

Il governo provinciale e gli organi dell’Azienda Provinciale Turismo decidono così di sospendere l’evento di primavera.

Dal 1992, però, la Festa del Mandorlo in Fiore riprende la sua festosa tradizione annuale.

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Il Mandorlo E La Mandorla Tra Storia E Tradizione

Le origini del mandorlo sono antichissime, tanto che l’albero era già presente nella prima parte dell’Età del Bronzo nelle zone dell’Asia Minore.

Di sicuro se ne faceva uso in Egitto già nel 1325 a.C. circa, dove sono stati ritrovati dei resti nella tomba del faraone Tutankhamon, dai quali si è rilevato che si tratta proprio di antiche varietà di mandorle, molto probabilmente importate dall’Oriente.

Da questo territorio si sarebbero diffuse in tutti i paesi del bacino del Mediterraneo, compresa l’Italia.

Nello specifico, le prime importazioni si ebbero in Sicilia, dove giungevano le preziose merci provenienti dagli scambi commerciali con i Fenici; da qui giunse in tutta la Magna Grecia, dove si cominciò ad utilizzarla principalmente in cucina divenendo un alimento importante, parte integrante dell’alimentazione locale, ingrediente d’uso comune in cucina adoperato perfino per aromatizzare il vino (tuttora in Sicilia si produce un vino dal sapore particolare, profumato alla mandorla).

Furono dunque i Fenici a introdurre il mandorlo selvatico in Italia che si diffuse poi in quasi tutto il continente europeo meridionale.

In seguito all’addomesticamento, l’albero iniziò a produrre semi commestibili e, secondo alcuni studi, fu uno dei primi alberi da frutto a essere coltivato grazie alla capacità dei frutticoltori di selezionare i frutti.

Quindi, nonostante questa pianta non si presta alla propagazione tramite pollone o tramite talea, doveva essere stata addomesticata perfino prima dell’invenzione dell’innesto.

A differenza dell’albero coltivato, quello selvatico presenta, nel frutto, una forte tossicità dato che contiene glucoside amigdalina che, in conseguenza di danni subiti al seme, si trasforma in acido cianidrico.

Esso può raggiungere i 5 metri di altezza e presenta radici a fittone, un fusto liscio e di colore grigio, foglie lunghe fino a 12 cm e piccoli fiori che vanno dal bianco al rosa.

I suoi fiori sbocciano, generalmente, all’inizio della stagione primaverile ma, in zone a clima più mite come ad Agrigento, è possibile vederli fiorire anche tra gennaio e febbraio, per questo simboleggiano la speranza, oltre che il ritorno alla vita della natura ma, sfiorendo nell’arco di un breve lasso di tempo, rappresentano anche la delicatezza e la fragilità.

Sin dalla diffusione della pianta le mandorle sono state consumate sia fresche, al naturale, sia secche, salate o dolci. Ricca di vitamine (A, B ed E), sali minerali, ferro e potassio, la mandorla dolce viene utilizzata soprattutto per la preparazione di dessert e bibite (come l’orzata), quella amara invece data la presenza di amigdalina, sostanza che diventa facilmente tossica, è usata principalmente in profumeria, medicina e cosmesi.

Sono usate nella preparazione di vari tipi di dolci (confetti, torroni, torte, budini) e come ornamento di dolciumi.

Con le mandorle si prepara anche il latte di mandorla, una bevanda ottenuta riducendo le mandorle in pasta e poi diluendo questa con acqua naturale.

Questo latte già durante il Medioevo era utilizzato in moltissime ricette, soprattutto nei lunghi periodi “di magro”, cioè nei tempi di astinenza dalla carne, come la Quaresima.

Ma anche il “biancomangiare”, preparato con mandorle tritate, era un piatto essenziale di ogni banchetto medievale e in Italia lo si serviva nelle scodelle all’inizio del pasto.

Durante il Rinascimento, invece, la mandorla veniva usata soprattutto nei dessert che chiudevano sontuosamente i banchetti più raffinati.

La fortuna di questo albero e del suo gustoso frutto nella nostra tradizione si deve anche alla concezione secondo cui la mandorla è simbolo di fertilità tanto che, proprio per questa caratteristica, veniva donata ai novelli sposi in segno d’augurio, dichiarando un auspicio di prosperità.

Ecco perché ai matrimoni si è soliti regalare i confetti in grande quantità, prodotti, di solito, con la varietà nota come “Pizzuta d’Avola” che rappresenta il fulcro dei famosissimi confetti di Sulmona.

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Influenze Della Lingua Spagnola Sul Siciliano

La Sicilia è una terra dall’immenso patrimonio storico e culturale dovuto, in modo particolare, agli influssi delle popolazioni straniere che l’hanno conquistata e colonizzata.

 

Per questo il siciliano è una lingua che si è trasformata e ha assorbito molte parole provenienti dai conquistatori.

 

Comunemente parliamo di dialetto siciliano, in realtà l’Unesco ha stabilito che il siciliano non è un dialetto bensì una lingua madre, anche se già alcuni filologi di fama internazionale avevano descritto la parlata dell’isola come abbastanza distinta dall’italiano tipico tanto da potere essere considerata un idioma separato; ciò è evidente da un attento studio della fonologia, della morfologia, della sintassi e, nello specifico, del lessico.

 

Quando si parla di influenze della lingua spagnola si deve intendere l’eredità linguistica lasciata in Sicilia dalle diverse genti iberiche, quindi aragonesi, castigliani e catalani.

 

L’influenza della lingua spagnola cominciò quando una rivolta popolare, conosciuta come i Vespri siciliani del 1282, cacciò il francese Carlo d’Angiò, ma la Sicilia rimase comunque in balia di uno straniero, Pietro d’Aragona, che aveva appoggiato la rivolta e i rivoltosi. Dopo una lotta tra Angioini e Aragonesi per ottenere il potere nell’isola, con la Pace di Caltabellotta nel 1302 la Sicilia fu assegnata agli Aragonesi. Nel 1479 l’isola fu dichiarata vicereame spagnolo e rimase alla Spagna fino al 1712, quando passò sotto il dominio dei Savoia.

Quindi gli Spagnoli Borboni occuparono la Sicilia per 500 anni e le loro espressioni si fusero con la lingua locale. Durante questo periodo, la lingua siciliana riuscì a godere di ufficialità e prestigio. Fin quando il Re di Spagna Alfonso V° unì la Sicilia e Napoli, introducendo come lingua il Castigliano.

 

Dunque l’influenza della lingua spagnola sul siciliano è stata di tale portata che ancora oggi vi sono espressioni e termini di origine spagnola usati dai siciliani nella loro quotidianità.

 

L’influenza delle lingue iberiche sulla parlata dell’isola è evidente, ad esempio, nelle terminazioni verbali dell’imperfetto (-ìa, come in dicìa, facìa) e del condizionale (-ìa, es.: dirìa, farìa), nell’uso di sostituire il condizionale dell’apòdosi nel periodo ipotetico, sia di secondo che di terzo tipo, col congiuntivo passato o trapassato, come nell’espressione: “Si me hubiera llamado, no hubiera ido” in castigliano; “Si m’avissiru chiamatu, nun cc’avissi jutu” in siciliano. Altra regola grammaticale comune è quella dell’uso nel complemento oggetto della preposizione “a” con nomi propri o comuni di persone, per esempio: “Esperamos a tu hermano” in castigliano, “Aspittamu a tò frati” in siciliano.

Si tratta di costruzioni sintattiche spesso scambiate per errori dovuti all’ignoranza.

Dal castigliano derivano numerose perifrastiche; in particolare vi è la costruzione “havi” + complemento di tempo + “ca” + verbo (es.: “Havi dui anni ca nun niscèmu nzèmmula” in siciliano, “Hace dos años que no salimos juntos” in castigliano); e la costruzione del verbo “aviri” + “a” + infinito (es.: “Tengo que ir” in castigliano, “Haju a jiri” in siciliano). Infine, sopravvivono ancora esclamazioni come “Vàja!”. Dal catalano proviene il verbo “dunari” (“donar”) e il pronome relativo e congiunzione “ca” derivante da “que”.

Ecco un elenco di parole usate in Sicilia di derivazione spagnola:
curtigghiu (cortile) da cortijo; lastima (lamento) da làstima; pignata (pentola) da pinàda; cucchiara (cucchiaio) da cuchara; cascia (cassa) da caixa, scupetta (lupara) da escopeta; manta (coperta) da manta; zita (fidanzata) da cita; anciova (acciuga) da anxova; tiempu (tempo) da tiempo; vientu (vento) da viento; chianu (piano) da llano; chiavi (chiave) da llave; fastuchi (pistacchi) da festuc; muccaturi (fazzoletto) da mocador; chiamari (chiamare) da llamar; accabbari (concludere) da acabar; acciaffari (schiacciare) da aixafar; abbuccari (cadere) da abocar; accupari (soffocare dal caldo) da acubar; addunarisi (accorgersi) da adonar-se; affruntàrisi (vergognarsi) da afrontar-se; capuliari (tritare) da capolar; priàrisi (rallegrarsi) da prear-se; sgarrari (sbagliare) da esgarrar; nzittari (indovinare) da encertar; etc.

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La Mandorla nell’arte, Simbolismi E Rappresentazioni

La mandorla, frutto del fiore del mandorlo, è un simbolo strettamente legato alla fecondità e alla rinascita di una natura rigogliosa, che riempirà di frutti prelibati le tavole dei contadini.

Per questo è stata spesso soggetto di molte rappresentazioni artistiche fin dall’antichità.

Gran parte della sua fortuna in ambito artistico si deve ai miti che la circondano, in particolare il mito di Fillide e Acamante, che è servito da fonte di ispirazione per numerose opere.

In ambito letterario quest’antica epopea greca, di cui parlò Omero, venne ripresa da Ovidio nell’opera erotico-mitologica intitolata “Eroidi” (Heroides), composta tra il 25 a.C. e il 16 a.C. Si trattava di una raccolta di 21 lettere poetiche immaginarie, d’amore e di dolore, tra le quali 15 scritte da eroine abbandonate dai loro innamorati o mariti, tre da eroi con abbinate le tre risposte.

L’opera di Ovidio venne ripresa dallo scrittore e poeta inglese Geoffrey Chaucer (circa 1343-1400) nel poema epico dal titolo “La Leggenda delle donne virtuose” (The Legend of Good Women), nel quale narrò in forma onirica la tragica storia di Fillide, oltre a quella di altre protagoniste storiche e mitologiche rattristate per essere state lasciate dall’amato.

Molto più tardi perfino il poeta Boccaccio nel suo “Decamerone” descrisse con dovizia di particolari una golosissima casa fatta di marzapane cioè, semplicemente, di mandorle e zucchero, tessendo le lodi di questo straordinario frutto.

Nel 1882, l’inglese Edward Edward Coley Burne-Jones (1833-1898), uno dei migliori Preraffaelliti in Inghilterra, rappresentò, nell’olio su tela dal titolo “L’albero del perdono” (The Tree of Forgiveness), Fillide e Demofonte nella loro speranza appagata, abbracciati e nudi, davanti a un albero di mandorlo fiorito. L’opera, di notevole potenza espressiva, fu anticipata da un acquerello nel 1870, nel cui retro comparivano citate le “Eroidi” di Ovidio.

Anche il celebre pittore Vincent Van Gogh (1853-1890) si lasciò ispirare dai fiori di mandorlo tanto da rappresentarli in più di una decina di quadri. Uno dei più famosi fu l’olio su tela intitolato “Ramo di mandorlo in fiore”, dipinto a Saint Remy de Provence prima di morire, in occasione dell’annuncio della nascita del nipote Vincent Willem, figlio di suo fratello Theo. La posizione dei fiori e la precisione delle linee indicano che fonte di ispirazione per il pittore impressionista fu l’arte dell’incisione giapponese, mentre il soggetto simboleggia l’affacciarsi di una nuova vita.

La mandorla per la sua forma ovoidale è collegata alla matrice, come simbolo di fecondità, di nascita primordiale dell’Universo. Per questo fu soggetto di molte rappresentazioni artistiche di carattere religioso, come nel caso del geniale Perugino “divin pittore” che usò nei suoi quadri la cosiddetta “mandorla mistica” (simbolo di forma ogivale ottenuto dalla sovrapposizione di due cerchi) per incastonare la Vergine Maria nell’Assunzione quale simbolo dell’unione fra terreno e divino.

La sua forma, che in sostanza abbraccia tutta la persona, si può vedere nei dipinti che ritraggono il Cristo giudice, la Trinità e la Vergine Maria. Essa richiama il cerchio che è simbolo di perfezione e per questo ben rappresenta la santità.

La Mandorla Mistica si ritrova frequentemente nelle basiliche paleocristiane e nelle catacombe, nelle quali è posta in maniera orizzontale anziché in verticale, rappresentante la stilizzazione di un pesce, simbolo di Cristo Redentore, che prende il nome di Ichthys.

In particolare, i due cerchi che si incontrano sono la rappresentazione dei due mondi su cui si basa la creazione dell’Universo, ovvero il Divino e l’Umano. Il simbolo si ritrova anche nelle lunette dei maestosi portali delle cattedrali tardo-romaniche e gotiche, in particolar modo quelli delle cattedrali francesi.

Lo schema compositivo presenta il Cristo in Maestà racchiuso nel tipico guscio-vulva della Mandorla Mistica, accerchiato dai simboli dei Quattro Evangelisti e dai Dodici Apostoli.

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La Mandorla: Miti, Leggende, Magia E Folklore

La mandorla è il simbolo della nascita e della resurrezione: infatti essendo il mandorlo il primo albero a sbocciare in primavera simboleggia la rinascita della natura, il suo rinnovarsi dopo la morte invernale.

Essa è molto ricca di significati esoterici, è il segreto che si svela rompendo il guscio, che protegge il seme.

Essendo nascosta, rappresenta l’essenza spirituale, la saggezza, la sapienza. Infatti in alcuni riti sacri si prescrive di nutrirsene.

Avendo una forma ovoidale, essa è collegata alla matrice, come simbolo di fecondità e di nascita primordiale dell’universo e, in alcune civiltà, alla Magna Mater (Grande Madre).

Rappresenta un spazio chiuso, protetto, e delimita lo spazio sacro separandolo dallo spazio profano: protettrice che separa il puro, l’originario, dall’impuro.

La vescica piscis, che richiama la mandorla, era un simbolo già noto in India, nell’antica Mesopotamia, in Africa e nelle civiltà asiatiche, ma si diffuse ampiamente soprattutto nel contesto cristiano, mediante l’associazione della figura del pesce a Cristo.

Per tutti questi significati simbolici la mandorla è stata collegata a numerosi miti e leggende, ha. diffuso parole sacre, cultura e folclore, che affondano le radici in tempi lontani nell’area geografica a clima mediterraneo in cui la pianta è coltivata.

Essa è in relazione con particolari divinità antiche, per esempio, nel mito di Attis, la madre Nana concepisce il dio mettendosi in seno una mandorla; nella mitologia greca, essa è il simbolo di Era; noto è anche il mito di Acamante e Fillide.

La fioritura precoce sul ramo di mandorlo appare come un segnale di rinascita al profeta Geremia, nella Bibbia; nell’Esodo, Dio indica a Mosè di prenderne i fiori a modello per forgiare l’oro con il martello in modo da ottenere l’antico candelabro ebraico (Menorah) a sette bracci.

Nel testo biblico dell’Ecclesiaste, i fiori di mandorlo sono l’emblema di quanto la vita scorra velocemente fino all’invecchiamento: entro poco più di una settimana mutano di tonalità dal bianco rosato al bianco candido prima di cadere dai rami.

Antichi riti di magia venivano praticati durante il Medioevo, in cui la mandorla era uno degli ingredienti usati per fantomatici filtri d’amore e persino per pozioni afrodisiache; inoltre era frequente ridurla in poltiglia e mescolarla con olii profumati, tanto da essere utilizzata come base per creme da applicare sul corpo di giovani fanciulle in età da marito, ciò perché i fiori di mandorlo sbocciavano nella stagione considerata propizia per i fidanzamenti.

Anche nel folklore i fiori di mandorlo sono importanti. Alle tradizioni folcloristiche della Spagna appartiene una leggenda araba secondo la quale il califfo musulmano Abd al-Rahman III fece piantare dei mandorli sulle colline attorno al suo palazzo nel villaggio di Madinat-al-Zahra, vicino Cordova.

Voleva restituire il sorriso all’amata moglie Azahara, che soffriva di nostalgia, alla vista dei fiori bianchi assomiglianti al candido manto di neve della Sierra Nevada, che lei un tempo poteva ammirare dalla propria abitazione a Granada.

In Germania vi sono numerose iniziative dirette a promuovere la pianta di mandorlo.

Nella regione del Palatinato è famosissima la “Sagra dei Fiori di Mandorlo” (Gimmeldingen Mandelblütenfest), organizzata a ricorrenza annuale dal 1935, tra la metà di marzo e l’inizio di aprile, nel villaggio di Gimmeldingen, dove i visitatori passeggiano lungo un percorso dedicato alle mandorle, gustando biscotti a forma di questo fiore decorato con glassa rosa; vi è pure l’elezione della “Reginetta dei fiori di mandorlo” dell’anno.

Nel sud del Marocco viene organizzato ogni anno nel mese di febbraio il “Festival del Fiore di Mandorlo”, in cui musicisti, ballerini e cantastorie allietano per l’occasione il villaggio di Tafraoute, tra le montagne Anti-Atlas, al centro della Valle Ameln, famosa per la produzione di mandorle.

Nel nord dell’India, da prima del XIV secolo, tra marzo e aprile, una folla di persone arrivava a Srinagar da tutta la valle del Kashmir per vedere lo spettacolo del giardino storico “Badamwari” (Alcova di mandorle) con i fiori di mandorlo sbocciati appena scomparso il gelo dell’inverno; per l’occasione venivano anche organizzati spettacoli culturali e festival.

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Siciliano Sono Band: Un Pop Adrenalinico Dai Ritmi Siciliani

I “Siciliano Sono” rappresentano una delle realtà musicali emergenti di maggiore spicco.

La band è nata ad Agrigento nel 2009 da un’idea del cantautore Biagio Marino.

La loro carriera inizia in giro per la Sicilia, dove esce nell’estate del 2012 il loro primo disco intitolato “Siroko”, cioè Scirocco.

L’album riscuote subito grande apprezzamento di pubblico e critica.

Nel 2015, invece, la band intraprende un nuovo progetto dal titolo “Mundo Malo”, in cui sono anche presenti quattro tracce in lingua spagnola.

Ne segue il “Mundo Malo Tour” che vanta all’attivo più di cinquanta concerti in Italia e in Europa.

La loro musica si distingue per essere un pop adrenalinico con ritmi latini e tropicali combinati a quelli più tradizionali del Sud Italia.

Lo spettacolo che sanno offrire al pubblico è incalzante, divertente e ballabile.

Abbiamo chiesto loro di rispondere alle nostre domande in modo da farci sapere qualcosa di più della loro band.

Senza dubbio l’essere siciliani influenza tantissimo la vostra musica. Cosa in particolare vi ispira della Sicilia?

Dalla Sicilia veniamo ispirati sia dalle cose positive che negative. Attraverso la musica raccontiamo la visione del mondo del siciliano.

Com’è nato lo stile particolare che caratterizza la vostra musica?

Nasce attraverso un mix di diversi elementi stilistici. I nostri punti di riferimento sono stati sempre all’estero, continuiamo ad essere siciliani anche in questo, assorbendo continue influenze altre che scaturiscono poi in una musica semplice e immediata. Ci rivolgiamo al popolo, alla gente comune e non ai critici musicali.

Il vostro primo disco, che richiama suoni, culture ed essenze diverse che si mescolano, si intitola “Siroko” cioè Scirocco. Indubbiamente si tratta di un forte richiamo alla Sicilia, ma perché avete scelto proprio questa parola per il vostro primo album?

Scirocco è un vento caldo che avvolge il mediterraneo e la Sicilia. Quello che viviamo quando c’è lo scirocco è quello di stare “immobili” perché altrimenti suderemo di più muovendoci. Ecco quel momento in cui ti fermi per non sudare ti dà la possibilità di “ragionare” (anche se grondi di sudore) di lamentarti su come si evolvono i fatti di vita quotidiana, imprechi contro chiunque per le cose che vanno male, ma nonostante ciò rimani lì fermo per paura di muoverti e non puoi che rassegnarti e sperare.
Siroko racconta l’incanto per le bellezze della nostra terra, le azioni e le mancate azioni del siciliano nei confronti della sua terra.

Perché avete scelto di inserire nel vostro progetto “Mundo Malo” quattro tracce in lingua spagnola?

Lo spagnolo è una delle lingue più parlate al mondo e la cultura siciliana è stata fortemente dominata storicamente dalla presenza iberica nell’isola. Ciò ha influenzato anche l’evoluzione del dialetto siciliano che risente del periodo spagnolo. Inoltre la cultura musicale spagnola, a differenza di quella italiana, si apre maggiormente alle nostre esigenze stilistico-musicali e questo ci permette di affacciarci ad un mercato musicale più eterogeneo.

Vi aspettavate tanto successo pur partendo da una piccola realtà come Agrigento?

Lavoriamo per quello, non conta tanto il fatto della realtà piccola, ci aiuta indubbiamente a mantenere i piedi per terra. Il nostro lavoro è orientato ad un raggiungimento di un successo più alto. Però sai la musica poi tocca confini a te impensabili…

Quali difficoltà avete dovuto superare per potervi fare conoscere anche all’estero?

Le difficoltà primarie sono prevalentemente economiche. Investire all’estero per una band come la nostra significa andare incontro a delle spese che riguardano prevalentemente le attività organizzative, gestionali e strategiche. Ciò che siamo è sia merito della nostra qualità dello spettacolo musicale, che curiamo puntigliosamente in ogni parte, ma anche dal lavoro dietro le quinte che molti non vedono.

Quali sono i messaggi principali che volete portare con le vostre canzoni?

Le canzoni che fin ora ho scritto e composto insieme alla mia band rivolgono lo sguardo prevalentemente alla quotidianità, ad una realtà sociale in cui poi alla fine si rivede ogni persona. E così che le mie storie sono le storie di tutti. Tutto diventa universale. Facciamo quello che dobbiamo fare: musica con il cuore.

Durante il Mandorlo in Fiore di quest’anno vi siete esibiti in piazza Cavour.

D’altronde quale migliore connubio se non l’incontro tra i ritmi incalzanti della tradizione del Sud Italia e della Word Music, combinati a contaminazioni sonore gitane, che caratterizza la vostra musica e il Festival Internazionale del Folklore.

Quale particolare ricordo legato a quell’evento vi è rimasto?

Indubbiamente il più bel ricordo e inaspettato è stato quello di aver visto un’intera piazza che cantava le nostre canzoni e si divertiva. La nostra Fiesta Total ha colpito nel segno. Il nostro pubblico in quell’occasione ha dimostrato di avere una cultura musicale pari a pubblici ben più blasonati, un pubblico eterogeneo e al pari di un festival in Europa.

In che modo la musica può, a vostro parere, favorire la fratellanza e la solidarietà tra i popoli?

La musica non ha mai creato rivalità fra i popoli, è un’arte che fa dell’unione la sua forza. Le note musicali sono 7 ma attraverso queste puoi creare infinite melodie. Alcune si assomiglieranno tra loro, ma è solo una percezione. In questo senso, attraverso le stesse note puoi unire e stare in armonia con il mondo. Un finito che produce un infinito. La musica è l’unica lingua universale.

E ora un’ultima domanda. Quali sono i vostri prossimi progetti musicali?

Abbiamo appena concluso una tournée in giro fra le più belle piazze di ogni provincia della Sicilia e non; subito dopo ci siamo messi a lavoro a perfezionare il nostro spettacolo grazie all’aiuto di Adrià Salas Viñallonga cantante de La Pegatina, band di Barcellona molto famosa in spagna.

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Laura Danile, Tra Archeologia E Turismo Ecco “Agrigento Family Tour”

laura danile al tempio di zeus ad agrigento

Laura Danile, agrigentina, è un archeologo e guida turistica.

Attività al tempio della concordia di Laura Danile Family Tour
Attività al tempio della concordia di Laura Danile Family Tour

Dopo tanti anni di studio in biblioteca, di ricerca e di scavi sia in Italia che in Grecia, è tornata ad Agrigento e adesso si occupa di organizzare family tour; così, grazie a questo lavoro, condivide la sua passione per la storia e l’amore per i luoghi in cui è nata con le famiglie e, in particolare, con i bambini.

L’abbiamo intervistata per saperne di più circa il suo affascinante lavoro.

 

Laura, potresti spiegare nello specifico ai nostri lettori in cosa consiste “Agrigento Family Tour”?

E’ un servizio rivolto alle famiglie che possono progettare insieme a me il loro itinerario ad Agrigento e trasformare la visita alla valle dei templi e al museo archeologico in un momento di apprendimento ludico, per giocare e imparare allo stesso tempo. Ogni percorso è una esperienza interattiva in cui tutti siamo protagonisti e attori. In relazione all’età dei bambini è possibile scegliere diversi tipi di itinerari, legati ad aspetti che possono coinvolgere e affascinare maggiormente bambini o adolescenti. Inoltre spesso mi chiedono consigli su dove andare, dove dormire e come organizzare la loro permanenza in città a misura di famiglia e io sono ben lieta di aiutarli.

 

Trovi che siano più curiosi e interessati i bambini o i genitori che li accompagnano?

Entrambi in modo diverso e complementare. I bambini perché qualsiasi cosa è una nuova scoperta e amano esplorare posti nuovi e conoscere nuove storie, soprattutto se in compagnia dei genitori e di un vero archeologo. Gli adulti perché possono divertirsi in compagnia dei loro figli e allo stesso tempo conoscere lo straordinario patrimonio archeologico di Agrigento che lascia tutti senza fiato.

 

Come reagiscono i bambini alla vista dei Templi?

Ne sono affascinati perché sono grandi e imponenti e fanno tante domande, le più disparate e impensabili soprattutto quando arriviamo al tempio di Zeus con i suoi giganti di pietra.

 

Qual è l’aspetto più bello del tuo lavoro?

La possibilità di condividere le mie conoscenze con viaggiatori di ogni età e in particolar modo con i più piccoli e di avere l’impressione di costruire un passato tra il presente e il passato, restituendo all’antichità colori, odori, suoni.

 

Laura Danile Family Tour al Tempio della Concordia
Laura Danile Family Tour al Tempio della Concordia

Qual è l’esperienza legata ad Agrigento Family Tour che ricordi con maggiore piacere?

Ogni family tour è un ricordo piacevole che contribuisce a darmi la carica per andare avanti in questo lavoro e mi sprona a migliorarmi sempre.

 

Quanto conta la preparazione e quanto, invece, conta la passione e l’amore per la propria terra nel tuo lavoro?

Direi che la preparazione è quello che può fare la differenza. Un archeologo ha alle spalle tanti anni di studio, di viaggi e visite a musei e siti archeologici ma soprattutto ha acquisito un metodo di ricerca rigoroso. Cerco di essere costantemente aggiornata e di aggiungere sempre nuovi tasselli riguardo alla comunicazione, alla pedagogia del patrimonio, all’archeologia pubblica perché lavorare con i bambini è un lavoro serissimo, che richiede una progettazione accurata e dettagliata. La passione per la mia terra e per la sua storia è certamente alla base di tutto ed è quello che mi spinge a migliorare sempre e a trovare nuovi modi per valorizzare questa bellissima isola.

 

Sei stata per diverso tempo fuori da Agrigento. Che cosa ti ha spinto a ritornare qui?

La voglia di poter mettere a frutto la mia esperienza nella mia città, per contribuire in piccola parte alla sua crescita. Agrigento ha un enorme patrimonio archeologico e mi sembrava impossibile non poter lavorare qui e dover andar lontano per svolgere la mia professione. Onestamente a quel tempo immaginavo che avrei lavorato sul campo, a scavi, studio e ricerca e invece pian piano ho intrapreso anche questa strada parallela che oggi rappresenta la parte principale del mio lavoro e che mi piace moltissimo. Lavorare con i bambini mi dà molta soddisfazione e mi fa sentire parte attiva della società.

 

Da guida turistica hai certamente il polso della situazione per ciò che riguarda il turismo nel nostro territorio. Cosa puoi dirci al riguardo? Che margini di miglioramento ci sono in questo ambito che dovrebbe essere fondamentale per l’economia di Agrigento e provincia?

Credo che ci siano buone prospettive di crescita e che il trend sia positivo grazie al lavoro di tanti professionisti che negli ultimi anni stanno trasformando Agrigento in una destinazione importante, fatta di incontri con la gente del posto e di un lento viaggio per scoprirne la bellezza dalla costa all’interno. Ci sono ampi margini di miglioramento in termini di promozione turistica, di accoglienza e di servizi ai viaggiatori e credo che dovremmo puntare tutti su questo settore a vari livelli perché la vera ricchezza del nostro territorio è nella sua storia millenaria e nel suo territorio ricco di tanti aspetti che attendono di essere valorizzati.

 

Per motivi di studio e lavoro sei stata anche in Grecia a fare scavi archeologici. Cosa pensi che abbia in più o in meno la Valle dei Templi di Agrigento rispetto alla realtà archeologica e turistica greca?

Amo la Grecia e la considero la mia seconda casa e per un archeologo classico è come il paese delle meraviglie ma Agrigento certamente non ha nulla da invidiare ad altri importanti siti archeologici della madrepatria, è un sito molto ricco, immerso in un paesaggio rigoglioso costellato di ulivi secolari, mandorli, pistacchi e dalla storia millenaria.

 

Agrigento ospita ogni anno il Festival Internazionale del Folclore e il Festival Internazionale I Bambini del Mondo, che senza dubbio rappresentano un’attrattiva di fondamentale importanza per il nostro turismo. Cosa pensi della Festa del Mandorlo in Fiore?

Un appuntamento importante per la città che dovrebbe essere un evento di richiamo per viaggiatori da tutto il mondo con una promozione efficace e per tempo. Un suggerimento? Potenzierei le attività family friendly (sono di parte?)

Cell: 3478405712

eMail: [email protected]

Profilo Facebook: https://www.facebook.com/agrigentofamilytour/

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“Le Vergini Delle Rocce” di D’annunzio, Il Libro Che Ispirò La Festa Del Mandorlo In Fiore

L’idea di realizzare una manifestazione che, attraverso l’eccezionale raro fenomeno della precoce fioritura dei mandorli, esaltasse la primavera agrigentina fornendo così un indiretto ma significativo contributo per il lancio e la commercializzazione di alcuni prodotti agricoli tipici siciliani nacque un pomeriggio d’inverno del 1934 in una saletta dell’Hotel des Temples, un insediamento ricettivo di prim’ordine sorto dalla ristrutturazione di una villa intorno al 1882 e frequentato da una selezionata clientela internazionale anche perché solidamente inserito in un qualificato circuito isolano di escursioni (Palermo, Agrigento, Siracusa e Taormina).

Attorno ad un caffè si erano incontrati il dottor Alfonso Gaetani conte d’Osero, passato alla storia come ideatore della Sagra, e l’ambasciatore di Francia a Roma, conte Charles De Chambrun, che, quando gli impegni erano meno pressanti, raggiungeva volentieri la Sicilia delle cui bellezze si dichiarava ammirato sostenitore.

Fra i due, non si sa come, la conversazione era improvvisamente scivolata sul poeta e scrittore Gabriele D’Annunzio, per cui l’ambasciatore, incantato dalla natura agrigentina, aveva confidato di essere rimasto colpito un giorno da alcune descrizioni colte nella lettura di un testo dello scrittore pescarese dal titolo “Le vergini delle rocce”.

Nel libro scritto da D’Annunzio nel 1895 ci sono alcuni riferimenti geografici alla Sicilia e al territorio che lo fa singolarmente somigliare a quello agrigentino.

 

L’autore descrive un centro abitato di nome Trigento con una vallata sottostante limitata in fondo dal mare dove fioriscono filari di mandorli le cui piante di aspetto arido e tormentato sono datrici di un frutto opulento. Che Trigento fosse allora Agrigento?

 

Questa fu la domanda che si posero i due interlocutori.

E così, mentre il diplomatico francese rifletteva sulla bellezza di quel paesaggio meravigliosamente descritto da D’Annunzio, il conte Gaetani partorì l’idea di celebrare il rito spontaneo dei mandorli in fiore con una festa aperta a tutti, la Festa del Mandorlo in Fiore appunto.

Composto nel 1894 e pubblicato a puntate sulla rivista “Il Convito”, “Le vergini delle rocce” fu edito in volume nel 1896. Il titolo allude a un famoso quadro di Leonardo conservato al Louvre.

Il romanzo rappresentò una svolta importante, non tanto per la resa poetica, inferiore a quella dei romanzi precedenti, quanto per la testimonianza che offre sia dell’evoluzione spirituale e culturale dello scrittore, sia di una nuova disposizione narrativa.

Il protagonista del romanzo è Claudio Cantelmo, che vorrebbe un figlio per farne un nuovo Re di Roma, un superuomo quindi, e cerca invano una moglie fra le tre figlie dei Capece – Montagna, famiglia borbonica tra le più illustri e magnifiche delle due Sicilie, che vive ritirata nei suoi feudi, nell’antico castello di Trigento (Agrigento, appunto?); ma è difficile scegliere fra le tre belle principesse variamente seducenti e attraenti che vivono sullo sfondo di magnifici e suggestivi scenari naturali.

Cantelmo, assertore della dottrina del «superuomo», convinto che solo la classe aristocratica ha il diritto e la possibilità di governare, disgustato dalla realtà politica contemporanea, dominata, a suo parere, da demagogia e corruzione, sostiene che i nobili devono tenersi lontani dalla lotta politica finché non verrà il giorno in cui il popolo, oppresso dal disordine e dalla miseria, offrirà ad uno di loro la corona regale; ecco che il protagonista vorrebbe procreare il futuro sovrano.

In questo romanzo, dall’intreccio debole, la dottrina del superuomo diventa misura di giudizio etico – politico sulla società contemporanea e il portante strutturale di un idoleggiamento di creature belle, di paesaggi stupendi, tra cui quelli di Trigento che ispirarono la Festa del Mandorlo in Fiore, di scene voluttuose e seducenti, al di là di ogni preoccupazione morale o psicologica.

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